Ecco un approfondimento a cura di Fabio Ascenzi sulla nascita delle Regioni nel 1970, tra esigenze cooperative e resistenze centraliste.


Si è detto in un articolo precedente quanto le sorti del regionalismo italiano siano state condizionate dalle convenienze delle forze politiche in campo; nonché quanto ciò abbia influito nella determinazione del modello adottato e soprattutto sul ritardato e mancato sviluppo dello stesso.

Infatti, le elezioni dei Consigli regionali, che avrebbero dovuto svolgersi entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione (VIII disp. Trans. Cost.), furono celebrate solamente nel 1970.

Questa ventennale glaciazione non ebbe solo evidenti conseguenze politiche, ma anche degli effetti che sono risultati determinanti nella storia evolutiva del regionalismo italiano. L’intera legislazione statale in materia, e le conseguenti pronunce della Corte costituzionale, si formarono per oltre un ventennio in assenza delle Regioni ordinarie. Inoltre, agli albori della Repubblica, si continuò a legiferare, soprattutto nella materia dell’ordine pubblico (si pensi alle cosiddette leggi Scelba), con un approccio assolutamente centralistico e del tutto inconferente col nuovo assetto costituzionale.

La nascita delle Regioni nel 1970: il conflitto tra esigenze cooperative e resistenze centraliste

I primi conflitti, pertanto, furono tra lo Stato e quelle a statuto speciale, ma già in queste prime pronunce la Corte costituzionale iniziò a svolgere un ruolo di assoluto protagonismo e supplenza nella definizione delle competenze degli enti territoriali, che poi si andrà ad ampliare ulteriormente nei decenni successivi.

Quando con le legislazioni degli anni ’70 del Novecento venne finalmente avviato il processo di istituzione delle Regioni ordinarie vi fu un immediato allargamento dei conflitti, causato anche da visioni, confermate sia in campo politico che giuridico, profondamente distanti tra quanti vedevano nei neonati enti la massima espressione dell’autonomia territoriale, politica e legislativa, e quanti invece continuavano a ridurli a semplici articolazioni di decentramento amministrativo. D’altronde è ovvio che appena cominciarono a operare e legiferare si venne progressivamente estendendo il problema della sovrapposizione delle competenze Stato-Regioni e di conseguenza la necessità di regolarle.

Eppure, la sintesi trovata dall’Assemblea costituente nella formulazione dell’art. 5 Cost. avrebbe dovuto rendere abbastanza chiaro che il principio dell’unità politica fonda il suo presupposto nell’esistenza di un unico Stato, senza implicare la necessità che debba essere unitario anche dal punto di vista giuridico-amministrativo.

Con la scelta di regionalizzare lo Stato non si voleva assecondare la posizione di chi aspirava a una vera e propria organizzazione federale, ma neppure limitare tale previsione a un semplice decentramento organizzativo e funzionale. E proprio per questi motivi si volle riconoscere al nuovo ente un’identità differente e ben più rilevante rispetto a quella concessa alle altre autonomie (ne sono prova le quote di libertà amministrativa e finanziaria; la partecipazione con propri rappresentanti all’elezione del Presidente della Repubblica; il potere di iniziativa legislativa referendaria, ecc.).

Il potere legislativo delle Regioni

Se alle Regioni era stato attribuito il potere legislativo è perché si voleva istituire un ente politicamente autonomo. Nel testo della Costituzione del 1948 sembrava esserci un modello di netta separazione delle competenze, lì dove si ricorreva al criterio dell’elencazione delle materie nell’art. 117 Cost. (ante Riforma del 2001); ma tale impostazione non si è mai compiutamente realizzata.

Alla nascita delle Regioni ordinarie, l’attuazione del Titolo V evolse ben presto verso forme di cooperazione. E anche il modello a cui si rivolse il legislatore fu essenzialmente quello del cosiddetto regionalismo cooperativo, anche se più che per autonoma convinzione degli attori politici proprio per la necessità di allinearsi al solco che, di sentenza in sentenza, stava tracciando la giurisprudenza della Consulta.

In quei decenni, infatti, il ruolo del giudice delle leggi andò ben oltre la pronuncia sui singoli giudizi di legittimità, assurgendo a vero e proprio creatore di diritto con sentenze che sono andate a integrare i dettami costituzionali per meglio specificare, e armonizzare con essi, le richieste di autonomia che provenivano dai territori.

Assunto il principio dell’indivisibilità della Repubblica tra quelli non suscettibili di deroga, la Corte costituzionale è sempre intervenuta, con merito, per difendere lo stesso da qualsivoglia tentativo di natura secessionista.

Tracciando in maniera più lineare i confini tra i princìpi dell’indivisibilità e dell’autonomia, apparentemente in competizione ma sanciti come paritari dall’art. 5 Cost., si cercava di evitare questo conflitto. Ma effetto collaterale ne fu anche che a prevalere furono spesso le ragioni dei primi sui secondi, con conseguenze negative sul processo di sviluppo delle autonomie territoriali.

In questa prima, lunga e articolata fase, sembra evidenziarsi plasticamente l’itinerario evolutivo attraversato dal regionalismo italiano, passato dal primo modello duale (netta separazione delle competenze legislative) a quello cooperativo (collaborazione e integrazione).

Una nuova visione dello Stato

Pur con le resistenze ed i limiti illustrati, si è venuta comunque ad affermare una forma di Stato in linea con la visione che risultò prevalente nella discussione della Costituente. Un nuovo modello, quello dell’art. 5 Cost., che superava l’indissolubilità del binomio unità nazionale-accentramento a favore della regionalizzazione intesa come superamento delle asimmetrie territoriali all’interno di un assetto unitario mai posto in discussione.

Con gli anni ’90 del Novecento si aprì un decennio molto dinamico per le riforme. Si cominciò con la legge n. 142 del 1990 per il nuovo ordinamento delle autonomie locali; poi le cosiddette leggi Bassanini del 1997, con l’introduzione del federalismo amministrativo a Costituzione invariata.

Infine, la revisione del Titolo V del 2001 che ridefinì completamente i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali. Una novella rivoluzionaria nelle intenzioni degli autori, che ha voluto finanche costituzionalizzare quel principio di collaborazione (art. 120 Cost.) tanto evocato nelle precedenti sentenze. Ma a una modifica così ardita dell’originario disegno del Costituente non seguì la necessaria chiarezza che un impianto legislativo di tale portata avrebbe richiesto; innanzitutto, sul nuovo riparto di competenze Stato-Regioni e sul trasferimento di funzioni (e relative risorse). Ne è stata conseguenza un’enorme esplosione dei contenziosi, che ha spinto la Corte ad assumere un protagonismo ancora più spiccato, sfociato in una vera e propria riscrittura di quel processo riformatore messo in atto dal legislatore.

Ancora molte incertezze

Così, tra continue modifiche legislative e interventi della giurisprudenza costituzionale, a oltre settant’anni dall’approvazione della Carta repubblicana ed a cinquanta dalla nascita delle Regioni a statuto ordinario, si appalesa ancora un quadro pieno di incertezze.

Sarebbe stato auspicabile che si fosse intervenuti per risolverle, piuttosto che giustapporre alla tela anche una sorta di tertium genus rappresentato dal regionalismo differenziato, con il rischio di rendere oltremodo difficile il superamento di quel «regionalismo senza modello» conosciuto in questo mezzo secolo, nonché di creare nuovi conflitti affidati alla soluzione del giudice costituzionale.


Fonte: articolo di Fabio Ascenzi