Un approfondimento, a cura di Fabio Ascenzi, dedicato al mancato sviluppo delle Regioni come organismo e al conseguente fallimento delle leggi delega che le ha relegato a meri enti di decentramento amministrativo.


Abbozzata nelle precedenti riflessioni una veloce ricostruzione sulle travagliate vicende del regionalismo italiano, resta da comprendere quale ruolo si è andato profilando per questi nuovi Enti nati dopo le prime elezioni del 1970, innanzitutto nel rapporto con lo Stato.

Riparto delle competenze

Per quanto riguarda il riparto delle competenze, la vecchia formulazione dell’art. 117 Cost. prevedeva una potestà legislativa ripartita o concorrente con la quale lo Stato, in alcune materie espressamente elencate, dettava le linee generali nelle cosiddette leggi-cornice, lasciando alle singole Regioni il compito di adottare la disciplina concreta, anche differenziata per ciascuna Regione, ma ovviamente nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e senza andare in contrasto con l’interesse nazionale o con quello di altre Regioni; vi era poi anche una potestà integrativa-facoltativa, concessa alle Regioni a Statuto ordinario, disciplinata dall’ultimo comma del precedente art. 117 Cost., in base alla quale lo Stato poteva rimandare alla singola Regione il potere di emanare norme per l’attuazione della legge stessa.

Per le sole funzioni amministrative, vigeva invece il principio di parallelismo fra potestà legislativa regionale (prevista dall’art. 117 Cost.) e funzioni amministrative (art. 118 Cost.), in base al quale tali competenze venivano esercitate nelle stesse materie in cui si aveva facoltà di approvare leggi.

Proprio in questi ambiti sembrano emergere le maggiori incertezze dei costituenti, dettate dalla mancanza di esperienze storiche alle quali riferirsi, che non fecero scorgere la difficoltà di porre a base della potestà legislativa regionale una competenza dettata da un modello caratterizzato da siffatta rigidità, che non poteva resistere alla forza degli interessi unitari di cui era impregnata, ideologicamente e normativamente, la legislazione statale.

Nessun indirizzo certo era stato tracciato sul delicato tema del coordinamento tra i poteri statali e locali, né tanto meno le successive leggi cornice furono in grado di regolarlo chiaramente.

Il mancato sviluppo delle Regioni

Le prime normative apparivano alquanto timide nell’attribuire poteri concreti alle Regioni, che infatti incontrarono molti limiti all’effettivo esercizio della potestà legislativa che gli avrebbero dovuto attribuire. E persino il decentramento delle sole funzioni amministrative rimase per molti anni inattuato, con la conseguente permanenza delle stesse in capo all’amministrazione statale.

Neppure il clima di rinnovato entusiasmo attorno ai nuovi enti che si ebbe nel 1970, con le prime elezioni dei Consigli regionali e l’approvazione degli Statuti, venne seguito nell’immediato dai decreti necessari all’effettivo trasferimento delle funzioni, nonché delle risorse e del personale. I primi arrivarono due anni dopo, senza ancora contenere un chiaro riparto delle funzioni per settori organici di materie; il trasferimento del personale creando una situazione a dir poco paradossale: ai vertici della neo-burocrazia regionale, che avrebbe dovuto contribuire in maniera determinante alla rivendicazione e all’esercizio del ruolo autonomo delle Regioni, sedevano quasi esclusivamente figure trasferite dallo Stato, e quindi impregnate di quella cultura statalista refrattaria alle innovazioni introdotte dalla nuova legislazione di stampo autonomista.

Il fallimento delle leggi delega

Le normative di delegazione emanate, pertanto, furono del tutto inadeguate; il trasferimento di funzioni non avvenne per settori organici di materie, ma sulla base degli ambiti di competenza dei singoli ministeri, causando così un’inevitabile sovrapposizione e conseguenti conflitti tra i diversi apparati, trasversalmente competenti sulle specifiche materie.

Mutate aspirazioni politiche e pervicace resistenza degli apparati burocratici dello Stato centrale contribuirono in maniera decisiva a rallentare ed eludere quelli che erano i presupposti del modello di regionalismo pensato dai costituenti, un’interpretazione in chiave politica del principio autonomista, dove le autonomie territoriali avrebbero dovuto derivare l’indirizzo politico-amministrativo dalle loro comunità, e non dallo Stato.

Solo sette anni dopo le elezioni regionali si giunse alla riforma introdotta dal D.P.R. n. 616 del 1977, che accorpava l’elenco di competenze di cui all’art. 117 Cost. in settori organici di materie. Si introduceva, inoltre, una tendenziale differenziazione di “ruolo” tra Regioni ed enti locali, riservando alle prime principalmente compiti di normazione, di coordinamento e di programmazione, ai secondi funzioni di natura amministrativa e di rappresentanza delle istanze territoriali di base.

Un primo passo in avanti, anche se i risultati raggiunti furono ben distanti dalle aspettative espresse; non tanto per mancanza di innovazione e consapevolezza del legislatore, quanto per gli ostacoli disseminati, ancora una volta, dagli apparati centrali che, invece di collaborare con lo Stato per la piena applicazione dei dettami costituzionali, sembravano più interessati a difendere lo status quo ante, boicottando nei fatti il trasferimento di risorse e personale necessari all’effettivo esercizio delle nuove funzioni attribuite alle Regioni.

L’erosione sistematica dei princìpi di autonomia

Fu proprio questa incompiutezza del quadro riformatore ad aprire la via a un’erosione sistematica dei princìpi dell’autonomia, testimoniata nei decenni successivi dalla mancanza di progetti legislativi organici e dalla produzione di una microlegislazione di settore del tutto insufficiente allo scopo.

Al netto di questi gravi limiti, tuttavia, il D.P.R. n. 616 del 1977 ebbe almeno il merito di affermare il principio dell’autonomia come processo irreversibile, delineando un primo compiuto trasferimento di funzioni amministrative alle Regioni, nonché precisando il rapporto tra il nuovo ente e le autonomie locali.

Ma lo sbocco naturale di tale situazione fu comunque il consolidamento di un sistema che, anche alla luce del percorso intrapreso dalla Corte costituzionale, vedeva nel rapporto collaborativo tra i diversi livelli istituzionali il presupposto a qualsiasi forma di decentramento e autonomia.

Il criterio del riparto delle competenze rigido palesava tutti i propri limiti e si manifestava sempre più chiaramente la necessità di un coordinamento tra le politiche statali e quelle attribuite alle Regioni.

Per poter funzionare appieno, il modello cooperativo pensato dai costituenti avrebbe dovuto basarsi su una reale collaborazione tra soggetti, quali interlocutori posti sullo stesso piano e non stressati da una continua competizione; invece la prevalenza del principio dell’interesse nazionale contribuì a conservare un ruolo assolutamente predominante dello Stato, fino ad attribuire al Governo significativi poteri di intervento come, ad esempio, l’attività di indirizzo e di coordinamento o l’esercizio del potere sostitutivo.

Un processo, questo, favorito pure dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, protesa più che altro a comporre le istanze dell’autonomia con le esigenze unitarie, proprio in conformità al principio di leale collaborazione.

Senonché il legislatore provvide a dettare una disciplina generale del potere sostitutivo statale solo nel 1998, con l’art. 5 del D.Lgs. n. 112. E quindi, nonostante la volontà regolatrice della Corte, quel decennale vuoto legislativo contribuì a consolidare una pratica che ben presto perse l’iniziale carattere di eccezionalità per trasformarsi nella conferma di una supremazia dello Stato nei confronti delle autonomie regionali.

La limitazione delle Regioni a Enti di decentramento amministrativo

Volendo tracciare una sintesi dell’evoluzione del modello regionale italiano in questa articolata fase che va dagli anni ’70 del Novecento alle soglie del nuovo secolo, ne risulta un quadro a tinte fosche, dove l’aspirazione dei costituenti verso una compiuta regionalizzazione della Repubblica sembra essere stata inibita dalla ben più forte volontà di garantire, da parte dei diversi attori protagonisti, il ruolo predominante dello Stato rispetto alle Regioni, anche attraverso una colpevole inerzia nell’attuazione dei dettami costituzionali.

E le stesse Regioni, va detto chiaramente, fecero poco per emanciparsi dal ruolo al quale erano state relegate; quasi indifferenti a imporre la loro vera funzione come Enti di programmazione e legislazione, trovandosi piuttosto esse stesse ad accentrare la gestione di funzioni amministrative, mezzo più immediato per l’esercizio del potere, che avrebbero invece dovuto delegare o trasferire agli enti locali.

Così, disillusa l’aspirazione che le voleva essere strumenti di propulsione per la riforma organizzativa dello Stato, ben presto si ritrovarono a incarnarne un ulteriore livello burocratico che si è andato a sovrapporre, quando non addirittura a mettersi in competizione, con quelli già radicati nella storia politico-amministrativa del Paese.


Fonte: articolo di Fabio Ascenzi