maltrattamento-animali-collareL’Avvocato Maurizio Lucca analizza e commenta una recente sentenza del TAR della Lombardia riguardante il maltrattamento degli animali con collare a strozzo.


Alcune leggi regionali (ad es. quella della Regione Veneto n. 17 del 19 giugno 2014) vietano al proprietario o al detentore, anche temporaneo di animali di affezione, l’utilizzo della catena/corda, o di qualunque altro strumento di contenzione similare, salvo che per ragioni sanitarie o per misure urgenti e solamente temporanee di sicurezza, documentabili e certificate dal veterinario curante, significando la volontà di non sottoporre gli animali a strumenti di coercizione che incidono sulla loro salute, ritenendo sanzionabile la violazione del divieto (a loro tutela).

La sez. II Brescia del TAR Lombardia, con la sentenza 2 agosto 2023, n. 651, interviene su questa scia valoriale e di dignità per la tutela ed il benessere degli animali, legittimando una norma regolamentare comunale che considera maltrattamento l’utilizzo di museruole «stringi bocca», del collare c.d. «a strozzo», e/o con punte in qualsiasi modo in grado di provocare potenziale dolore all’animale, in palese contrasto con i principi di corretta convivenza con la specie umana.

Fatto

Una associazione che cura l’allevamento e l’addestramento dei cani impugna una deliberazione consiliare di approvazione del Regolamento per la tutela ed il benessere degli animali, esclusivamente nella parte in cui vieta l’utilizzo dei collari a strangolo o strozzo sostenendo da una parte, l’incompetenza del Comune, dall’altra parte, una generalizzazione del divieto, oltre ad essere incoerente con la disciplina regionale, non sarebbe nemmeno allineato con la scienza medico veterinaria (viene allegato un parere).

La potestà regolamentare del Comune

La potestà regolamentare comunale trova il proprio fondamento nella Costituzione che, all’art. 117, sesto comma, terzo periodo, stabilisce che «i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite».

Si ricava che anche la legislazione primaria riconosce espressamente una tale potestà, statuendo che, «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dello statuto, il comune e la provincia adottano regolamenti nelle materie di propria competenza ed in particolare per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzioni» (ex art. 7 del d.lgs. n. 267 del 2000, cfr. anche art. 4 della legge n. 131 del 2003 – c.d. legge “La Loggia”) [1].

Quindi, alla stregua delle richiamate previsioni, la potestà regolamentare è attribuita al Comune per la disciplina della propria organizzazione e per lo svolgimento delle funzioni proprie o allo stesso conferite dalla legge statale o regionale.

Tale assetto – direttamente correlato alla circostanza che il Comune è Ente a competenza generale, rappresentativo della collettività presente sul proprio territorio (ex art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000) – deve essere tuttavia coordinato con l’applicazione nell’ambito pubblicistico – almeno in via generale e salvo eccezioni – del principio di legalità (ex art. 97 Cost.), che presuppone la sussistenza di una norma primaria attributiva, anche in via implicita, del potere o della funzione a un determinato organo o Ente, in modo da legittimarne l’intervento in sede normativa, e quindi anche regolamentare [2].

È stato, difatti, rilevato che l’autonomia comunale «non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali» [3].

In presenza di esigenze generali, si possono giustificare disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli Enti locali, purché non venga menomato il nucleo fondamentale delle funzioni loro spettanti: agli Enti locali è attribuito il potere regolamentare in ordine ai compiti e alle potestà agli stessi affidate (“funzioni amministrative”).

La decisione

Il Tribunale respinge la domanda cautelare e sentenzia:

  • piena legittimazione dell’Associazione, in presenza del divieto di esercitare un’attività dove gli interessi economici di ogni associato sono messi in discussione (compromessi) dall’atto impugnato [4];
  • l’art. 7, Regolamenti, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, attribuisce ai Comuni il potere di adottare norme di regolamento nelle materie di propria competenza;
  • le funzioni amministrative comunali non sono però numerate, ma sono associate, a fini generali, alla cura degli interessi e la promozione dello sviluppo delle rispettive comunità (ex 3, Autonomie dei comuni e delle provincie, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000), con la conseguenza che il potere amministrativo dell’Ente locale si esercita su qualsiasi tema connesso con gli interessi della collettività a livello locale.
  • i limiti esterni sono il divieto di incidere in modo sproporzionato o non necessario sulle libertà personali ed economiche, nonché il rispetto delle disposizioni legislative dello Stato o della Regione, compresa l’uniformità dei requisiti minimi, potendo “legiferare” (creare norme giuridiche) negli interstizi non ancora trattati (dalla disciplina di riferimento);
  • in effetti, la disciplina regionale detta un livello minimo di tutele degli animali (dando uniformità ai precetti di benessere degli animali), livello che può essere ampliato nell’esercizio dell’Autonomia regolamentare, con ulteriori divieti: quei comportamenti potenzialmente nocivi per la salute e per l’equilibrio psicofisico degli animali;
  • in sede di bilanciamento degli interessi contrapposti (tutela dell’animale, da una parte, esercizio dell’attività cinofila, con il collare a strozzo) la difesa del Comune produce una relazione tecnica che evidenzia i danni fisici all’animale (piaghe, ferite e infiammazioni della cute del collo), e dall’altro lato, l’uso del collare a strangolo altera il comportamento del cane, il quale assume una posizione potenzialmente pericolosa, riconosciuta dal cane come una punizione coercitiva umana: una buona educazione impone la negazione dell’utilizzo di metodi coercitivi (aspetto sempre riportato nella relazione tecnica), potendo sostituirli con l’utilizzo di una pettorina la quale non reca alcun disturbo o costrizione negativa.

Il TAR, dunque, nell’analizzare i contrapposti parerei tecnici, nel respingere il ricorso, giunge alla conclusione che i danni più gravi sono connessi all’utilizzo del collare a strangolo, generalmente dovuti a comportamenti scorretti dei proprietari, ma questa pratica espone comunque gli animali a situazioni stressanti e al rischio di lesioni (si legge nella sentenza).

La presenza di un’alternativa praticabile e meno lesiva del benessere del cane, non collide con le esigenze dell’addestramento e della sicurezza, anche in termini di blocco rapido dell’animale: la pettorina viene preferita al collare a strozzo, salvo la dimostrazione (non fornita) della non perfetta sostituibilità dei due strumenti, rilevando che nella scelta – in ogni – caso la tutela dell’animale prevale.

Invero, il principio di proporzionalità di matrice comunitaria, immanente nel nostro ordinamento in virtù del richiamo operato dall’art. 1 della legge n. 241/1990, impone alla PA di optare, tra più possibili scelte ugualmente idonee al raggiungimento del pubblico interesse, per quella meno gravosa (con meno patimenti o sofferenze dell’animale) per i destinatari incisi dal provvedimento, onde evitare agli stessi ‘inutili’ sacrifici, che nella fattispecie postulano il divieto di maltrattamenti agli animali (senza bisogno, cfr. l’art. 544 ter, Maltrattamento di animali, c.p. che condanna chiunque «senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro»).

In termini più comprensibili, sembra di comprendere che il collare a strozzo, oltre a ledere la salute dell’animale, ne incentiva l’aggressività, aspetto anche questo che viene censurato: «chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze», ex comma 2 dell’art. 727, Abbandono di animali, c.p. [5].

La sentenza non richiede alcun commento stante la chiarezza del suo contenuto valoriale, dove nel cit. bilanciamento dei mezzi di arresto – collare a strozzo o pettorina – del cane, quello più adatto per il benessere dell’animale è il secondo, senza imporre inutili e ingiustificati maltrattamenti ad un essere che vive in simbiosi con gli umani, le persone, donando solo affetto, intimo (intenso) attributo presente solo in un’anima nobile.

 

Note

[1] TAR Lombardia, Milano, sez. III, 29 novembre 2021, n. 2631.

[2] Cfr. Corte cost., sentenza n. 115 del 2011.

[3] Corte cost., sentenze n. 202 del 2021 e n. 160 del 2016.

[4] È preclusa la legittimazione a proporre l’azione per l’efficienza, di cui al d.lgs. n. 198/2009 (c.d. class action pubblica), da parte di una associazione che non dimostri di rappresentare una classe “determinata ed omogenea” di “utenti e consumatori”, Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2023, n. 5031.

[5] Al collare automatico antiabbaio è applicabile l’art. 727, comma 2, c.p., senza che sia necessario accertarne l’effettivo utilizzo, Cass. pen., sez. III, 28 agosto 2023, n. 35847.

 


Fonte: articolo dell'Avv. Maurizio Lucca - Segretario Generale Enti Locali e Development Manager