L’ultima sentenza della Corte di Cassazione, la numero 31866/2024 della sezione lavoro, conferma il licenziamento per chi opera maltrattamenti nei confronti della moglie.
Arriva una ‘buona’ notizia, a poche settimane dall’ultima giornata dedicata a ricordare le donne vittima di violenza in tutto il paese e a lavorare socialmente e culturalmente perché il fenomeno si arresti o per lo meno si riduca nei suoi numeri spaventosi. Arriva il conforto dell’ultima sentenza della Corte di Cassazione, la sent. 31866/2024 pubblicata l’11 dicembre 2024 dalla sezione lavoro.
Maltrattamenti alla moglie: il licenziamento è legittimo
Secondo questa sentenza, che costituirà un importante precedente, maltrattare la moglie e avere comportamenti palesemente violenti, riconosciuti e comprovati come tali, anche fuori dal lavoro può essere motivo di licenziamento per giusta causa. Il risultato delle azioni violente contro la propria moglie ha generato il licenziamento per giusta causa (ossia sè la sanzione disciplinare più grave che un datore di lavoro può infliggere a un dipendente.
La Cassazione con questa sentenza ha confermato il provvedimento di licenziamento per ‘giusta causa’ di un’autista di bus di linea che era stato condannato per maltrattamenti nei confronti della moglie.
Il giudice ha ritenuto, come già aveva fatto l’azienda che lo aveva licenziato, che il comportamento così violento dell’uomo, anche se avvenuto nella sfera privata, fosse del tutto incompatibile e non conciliabile con un lavoro a contatto con il pubblico, e ancor di più, con le mansioni di conducente di un mezzo pubblico, che richiedono capacità di gestire lo stress, di interagire con le persone in modo rispettoso e soprattutto ha necessità di autocontrollo anche nelle situazioni più difficili, cosa che di certo mancava alla persona in oggetto in questo caso.
Il fatto, sfociato in una condanna definitiva nello specifico per maltrattamenti verso la coniuge, non solo è giuridicamente rilevante ma è anche, per fortuna, riconosciuto, finalmente aggiungiamo noi, socialmente grave. Segno questo di una attenzione sempre più diffusa a questo tipo di reati, per centinaia di anni tenuti nascosti nelle famiglie e taciuti. Similmente il caso di reati che implicano violenza, minacce o lesioni alla dignità altrui, attentati all’ordine pubblico o alla salute pubblica, come può avvenire per lo spaccio di droga oppure aggressioni gravi.
Il ruolo del dipendente e il tipo di reato
Conta dunque il tipo di reato che il dipendente commette ma anche la posizione nell’organigramma aziendale da lui occupata. È chiaro che in alcuni ruoli se ci si ritrova a ricoprire posti apicali o di rappresentanza dell’azienda, il comportamento del dipendente anche fuori dall’orario e dal luogo di lavoro abbia un peso maggiore e debba risultare impeccabile, di esempio anche per gli altri. Se il lavoratore svolge mansioni a contatto con il pubblico o che richiedono particolare affidabilità e autocontrollo, una condotta violenta o aggressiva può compromettere la sua idoneità a svolgere tali mansioni, se non nella realtà, di certo nell’immaginario dei fruitori.
«Giustifica il licenziamento per giusta causa una condotta extralavorativa che integra un reato e che sfocia in una sentenza irrevocabile di condanna, – commenta la Corte nella sentenza pronunciata – caratterizzata, sia pure nell’ambito di rapporti interpersonali o familiari, dal mancato rispetto della altrui dignità e da forme di violenza e sopraffazione fisica e psichica, non sporadiche, bensì abituali. E ciò, a maggior ragione, quando le mansioni del lavoratore sono delicate – come quelle di un incaricato di pubblico servizio con constante contatto col pubblico – ed esigono un rigoroso rispetto verso gli utenti e capacità di autocontrollo». Inoltre una condanna penale, definitiva, ha il suo grave peso in un licenziamento, basti pensare che alcune aziende e posti di lavoro pubblici, richiedono all’interessato la dichiarazione dei ‘carichi pendenti’ e in alcuni casi può venir negata la stessa ammissione al concorso pubblico per ruoli rilevanti.
I precedenti giuridici
Non molto tempo prima, sempre la Corte di Cassazione, “Le Sezioni Unite della Cassazione” con il suo pronunciamento sent. n. 28322/2024 ha stabilito che anche un libero professionista, nel caso specifico addirittura un avvocato, può essere sanzionato disciplinarmente per aver offeso e molestato la propria moglie, anche se i fatti sono avvenuti al di fuori della vita professionale, nell’ambito familiare e non coinvolgono lo svolgimento della professione in maniera diretta e automatica.
È quanto accaduto ad un avvocato abusante e maltrattante al quale Il Consiglio Nazionale Forense ha inflitto la sanzione della censura al legale, ritenendo che il suo comportamento fosse incompatibile con la dignità e il decoro della professione forense.
Oltre al reato in se di maltrattamenti, il pronunciamento in oggetto ha ribadito e fatto presente come, gli obblighi del lavoratore non siano costituiti solamente dall’esecuzione mera della prestazione professionale richiesta, ma anche dal dovere di astenersi da comportamenti, anche esterni all’ambito lavorativo, che possano ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario, altra fondamentale componente presente in un rapporto professionale e necessaria per lo svolgere attività anche connesse a quella principale.