Continua a fare discutere la vicenda Benetton, che sulla scia di Stellantis sta portando avanti un controverso accordo: ecco cosa sta accadendo.
Negli ultimi giorni, sul fronte “lavoro”, tiene banco la questione del nuovo accordo concluso tra Benetton e i sindacati per affrontare la crisi economica che ha colpito l’azienda, che introduce incentivi all’uscita volontaria fino a 70.000 euro, in base all’anzianità dei dipendenti. La strategia mira a evitare licenziamenti, ridurre i costi e migliorare le finanze dell’azienda, che ha registrato una perdita di 230 milioni di euro nel bilancio 2023. Oltre agli incentivi, l’accordo prevede percorsi di outplacement e assunzioni temporanee, ma i sindacati esprimono preoccupazione per il personale rimanente.
L’accordo al centro del dibattito
L’accordo con le principali sigle sindacali prevede un incremento degli incentivi per chi lascia l’azienda entro il 15 gennaio 2024. I dipendenti possono ricevere, appunto, un bonus fino a 70.000 euro e l’azienda finanzierà percorsi di outplacement da 4.000 euro, per aiutare i lavoratori a ricollocarsi nel mercato del lavoro. Inoltre, venti dipendenti potranno essere assunti con contratti interinali di 12 mesi, in base ad un piano di ristrutturazione guidato dal nuovo Ad Claudio Sforza. L’aumento degli incentivi rispetto a quelli precedenti è stato concepito per incoraggiare un maggior numero di uscite volontarie, consentendo così a Benetton di ridurre il personale senza dover effettuare licenziamenti diretti, derubricandoli ad accordi di uscita volontaria.
I sindacati si dicono appunto preoccupati per i lavoratori rimasti, dal momento che la società intende ridurre ulteriormente i costi chiudendo 500 negozi in tutto il mondo e si paventa una possibile delocalizzazione della produzione verso il Sud-est asiatico.
Inoltre, sempre i rappresentanti dei lavoratori fanno notare come la strategia miri a ridurre il lavoro a una mera transazione economica, per mezzo della quale i dipendenti considerano il loro impiego non come un diritto fondamentale, ma come un’opzione da valutare in base a vantaggi finanziari immediati.
Secondo fonti sindacali, i suddetti incentivi sarebbero strategici per ridurre il personale senza dover affrontare il delicato tema dei licenziamenti diretti, solitamente con costi generali e possibili ripercussioni vertenziali più “costose” dell’esborso dell’incentivo.
Il precedente di Stellantis
La vicenda dei lavoratori di Benetton trova un “illustre” precedente: ci riferiamo al caso dei lavoratori di Stellantis, la quale, già un anno fa, nell’ambito della sua opera di riduzione della produzione italiana, aveva proposto a ben 15.000 lavoratori l’uscita volontaria, senza però consultare, a detta delle fonti di stampa, previamente i sindacati e le istituzioni. Alla proposta, che includeva incentivi variabili fino a 160.000 euro e altre indennità, hanno aderito vari dipendenti, prevalentemente impiegati negli stabilimenti di Mirafiori e Pomigliano.
Sembra ormai evidente che la prassi di incentivare, tramite offerte di denaro, l’uscita volontaria dei lavoratori sembra essersi ridotta ad un mero strumento di gestione aziendale.
Il contesto finanziario generale, sempre a caccia di politiche di dividendi generose, sembra prevalere su un approccio industriale coniugato al valore del lavoro ed alla coesione sociale.
Sullo sfondo, emerge un ulteriore paradosso: il continuo calo occupazionale negli stabilimenti italiani, aggravato dalle recenti strategie di delocalizzazione, si intreccia con la memoria di decenni di aiuti pubblici generosamente elargiti, come i 220 miliardi di euro ricevuti dalla Fiat dal 1975. Questa apparente contraddizione solleva interrogativi legittimi sull’efficacia delle politiche industriali del Paese e sulla loro capacità di vincolare le grandi aziende a un impegno concreto per la salvaguardia dell’occupazione e dello sviluppo economico nazionale.