Sta facendo molto discutere la richiesta di risarcimento da ben 20 milioni di euro avanzata dall’imprenditore Salvatore Buzzi, uno dei protagonisti della famigerata inchiesta “Mafia Capitale”.


Il 2 dicembre 2014, la città di Roma venne scossa da un’imponente operazione delle forze dell’ordine che segnò uno dei capitoli più bui della storia recente della capitale. L’inchiesta, denominata “Mafia Capitale” e guidata dalla Procura di Roma e dall’allora procuratore Giuseppe Pignatone, portò all’arresto di 37 persone e rivelò l’esistenza di un sistema criminale profondamente intrecciato con le istituzioni pubbliche e il mondo imprenditoriale. Tra i protagonisti figuravano Massimo Carminati, ex Nar legato alla Banda della Magliana e figura chiave della criminalità romana e Salvatore Buzzi, leader della Cooperativa 29 Giugno, un’organizzazione operante nel settore sociale che si sarebbe rivelata il fulcro di un sistema corruttivo pervasivo.

Il contesto

L’inchiesta si collocava in un momento delicato per la politica romana: Ignazio Marino era sindaco della città, ma la rete criminale si era sviluppata già durante il mandato di Gianni Alemanno. Questo sistema di corruzione, capace di prosperare sotto amministrazioni di centrodestra e centrosinistra, evidenziava un problema strutturale della politica romana.

Le intercettazioni, che includevano frasi come “Con i migranti si fanno più soldi che con la droga”, alimentarono un’ondata di indignazione pubblica, sottolineando la spregiudicatezza degli imputati. La rete non si limitava alla corruzione: secondo l’accusa, il gruppo agiva con modalità mafiose, usando l’intimidazione per ottenere appalti pubblici nel settore della gestione rifiuti, dell’accoglienza dei migranti e di altri servizi sociali.

Il piano giudiziario

Sul piano giudiziario, il processo si sviluppò in un crescendo di tensioni e dibattiti. Nel 2015, la Procura di Roma definì il gruppo di Buzzi e Carminati come una mafia “originale e originaria, radicata nel contesto romano, ma diversa dalle mafie tradizionali. Nel 2017, il Tribunale condannò Carminati e Buzzi rispettivamente a 20 e 19 anni, riconoscendo l’aggravante dell’associazione mafiosa. Tuttavia, questa impostazione fu progressivamente smantellata nei successivi gradi di giudizio.

Nel 2018, la Corte d’Appello negò la presenza dei requisiti di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero il delitto di associazione mafiosa, pur riconoscendo l’esistenza di un sistema criminale basato sulla corruzione diffusa.

La Cassazione, nel 2020, confermò questa posizione, sostenendo che il gruppo di Carminati e Buzzi non aveva acquisito quella fama necessaria per intimidire solo attraverso la conoscenza del vincolo associativo, che invece costituisce presupposto del reato di cui all’art. 416 bis c.p.

Da qui, l’operazione non venne più definita con il nome “Mafia Capitale”, ma con quello di “Mondo di mezzo”, che proveniva da uno stralcio di un’intercettazione tra Buzzi e Carminati: “È la teoria del mondo di mezzo, compa’… Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici “cazzo, com’è possibile che quello…”.

Inchiesta Mafia Capitale, Buzzi chiede risarcimento da 20 milioni di euro

Uno degli sviluppi più significativi a dieci anni dall’inchiesta riguarda la Cooperativa 29 Giugno, commissariata nel 2015 a seguito dell’arresto di Buzzi. La cooperativa, un tempo considerata un esempio virtuoso nel settore sociale con un patrimonio di 30 milioni di euro e un fatturato annuo di 70 milioni, fu posta in liquidazione nel 2018.

Dopo 10 anni dalla vicenda che ha scosso la Capitale, Salvatore Buzzi accusa i tre amministratori giudiziari, ciascuno remunerato con circa 3 milioni di euro, di aver causato un grave dissesto economico durante la gestione commissariale. Secondo l’imprenditore, il patrimonio della cooperativa sarebbe stato depauperato a causa di una gestione imprudente e negligente, portando, nel 2018, alla liquidazione dell’intera attività.

L’atto di citazione, firmato da ben 115 ex soci della cooperativa, punta ad accertare la “colpa grave” degli amministratori e ad ottenere un risarcimento di 20 milioni di euro.

Inoltre, in un post su Facebook, Buzzi non risparmia critiche all’ex procuratore capo Pignatone, accusandolo di aver cercato invano di dimostrare l’esistenza di una “mafia romana” per concludere la sua carriera con un’inchiesta di impatto. Le sue parole riflettono l’amarezza di un decennio segnato da battaglie legali e mediatiche che, seppur abbiano ridimensionato le accuse iniziali, hanno comunque messo in luce un sistema di corruzione sistemica.

Le conseguenza di questa indagine: il rischio di un’amnesia collettiva

L’inchiesta “Mondo di Mezzo” ha avuto conseguenze profonde sul panorama politico e sociale. Se da un lato ha alimentato la sfiducia verso la classe politica tradizionale, favorendo l’ascesa di movimenti come il Movimento 5 Stelle e la Lega, dall’altro non ha prodotto un cambiamento strutturale nelle dinamiche amministrative e politiche.

A dieci anni di distanza, il rischio di un’amnesia collettiva è palpabile.

Con il Giubileo del 2025 all’orizzonte, le autorità sembrano più concentrate sugli aspetti logistici ed economici che sul garantire una gestione trasparente e priva di infiltrazioni criminali. Prova ne è la recente vicenda che ha coinvolto un noto imprenditore romano, Mirko Pellegrini, nell’ambito dell’indagine condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Procura di Roma, che ha rivelato l’esistenza di un sofisticato ed imponente sistema di corruzione volto a favorire le aziende legate agli indagati e in particolare a quelle del Pellegrini, identificato quale “dominus” di tutta l’opera corruttiva. La questione è stata comunque trattata più diffusamente in questo nostro approfondimento: https://lentepubblica.it/cittadini-e-imprese/corruzione-appalti-roma-giubileo-2025/

Una governance capitolina fragile a ridosso del Giubileo 2025

La vicenda di “Mafia Capitale” rappresenta un monito inquietante sulle fragilità della governance romana e sulla resilienza di pratiche corruttive che, nonostante il clamore mediatico e le inchieste giudiziarie, sembrano adattarsi e riorganizzarsi nel tessuto amministrativo della Capitale. A dieci anni dall’operazione che rivelò le sinergie pericolose tra criminalità organizzata e istituzioni, il panorama politico è cambiato, ma le strutture di corruzione permangono, alimentando un clima di sfiducia nei confronti della classe dirigente.

Il recente coinvolgimento di figure di spicco, come Mirko Pellegrini, in nuovi scandali mette in evidenza la persistenza di un sistema capace di rigenerarsi, sfidando le normative e i tentativi di riforma. Questa situazione solleva interrogativi cruciali: quali misure concrete sono state adottate per garantire una vera trasparenza nella gestione degli appalti pubblici? Esiste realmente una volontà politica di combattere la corruzione o assistiamo piuttosto a una gestione emergenziale, focalizzata su risposte superficiali e temporanee?

La preparazione per il Giubileo del 2025, pur essendo un’opportunità di rilancio per Roma, rischia di diventare un terreno fertile per infiltrazioni corruttive, a meno che non venga implementato un rigoroso sistema di monitoraggio e controllo. La questione è di vitale importanza non solo per la salute economica della città, ma anche per il ripristino della fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Il pericolo di un’amnesia collettiva, alimentata dalla frustrazione e dalla disillusione, è più che palpabile: senza un impegno concreto e duraturo, il futuro di Roma rimarrà intriso di ambiguità, dove la lotta contro la corruzione non sarà che un’illusione effimera.