È legittimo licenziare il dipendente che scarica film o materiale pornografico sul proprio computer usufruendo della connessione wi-fi aziendale? E come può il datore scoprire che il proprio dipendente sta scaricando da internet piuttosto che lavorare? La risposta è nella Sentenza della Corte di Cassazione, sez. Lavoro, del 25 maggio – 3 novembre 2016, n. 22313.
Secondo la Corte Il datore può far ispezionare il pc in dotazione al dipendente e licenziarlo se si scopre che vi ha scaricato video porno, anche perché l’azienda rischia sanzioni laddove i filmati dovessero riguardare minorenni.
La premessa in diritto dalla quale muove la Corte territoriale è corretta. Ed infatti il datore di lavoro può effettuare dei controlli mirati (direttamente o attraverso la propria struttura) al fine di verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro (cfr. artt. 2086, 2087 e 2104 cod. civ.), tra cui i p.c. aziendali; nell’esercizio di tale prerogativa, occorre tuttavia rispettare la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché, con specifico riferimento alla disciplina in materia di protezione dei dati personali dettata dal D.lgs 196 del 2003, i principi di correttezza (secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori), di pertinenza e non eccedenza di cui all’art. 11, comma 1, del Codice; ciò, tenuto conto che tali controlli possono determinare il trattamento di informazioni personali, anche non pertinenti, o di dati di carattere sensibile (cfr. sul punto Cass. civ. 05-04-2012, n. 5525 e n. 18443 del 01/08/2013).
Nel caso, a tale premessa in diritto doveva quindi seguire il controllo fattuale in ordine alle concrete modalità con le quali l’ispezione era stata condotta, onde accertare la reale consistenza delle attività effettuate e delle richieste degli ispettori, nonché la loro conformità con eventuali policy aziendali.
Tali modalità invasive della privacy vengono date per pacifiche dalla Corte territoriale, che ha confermato la ricostruzione secondo la quale gli ispettori avevano preteso di aprire pubblicamente i files personali; ciò tuttavia ha fatto senza richiamare le fonti del proprio convincimento e malgrado lo specifico motivo di appello formulato in proposito dalla Banca e le dissonanti deduzioni e capitolazioni istruttorie (riportate alle pgg. 20 e 21 del ricorso per cassazione). Lo stesso dicasi per l’affermazione secondo la quale i dati cancellati erano integralmente recuperabili sul server.
In allegato il testo completo della Sentenza.