È un periodo in cui l’Italia si sta dividendo tra un sistema di dittatura sanitaria e una parte del popolo che reclama la libertà di lavorare. Ma come la dittatura sanitaria nasconde in sé qualcos’altro, anche il reclamare la libertà ha i suoi scheletri.
Lasciamo per un attimo da parte la dittatura sanitaria, cercando di capire cosa manca al popolo per avere quella incisività e quella efficacia nella protesta che serve per smantellare questo sistema, di fatto dittatoriale.
Il popolo reclama libertà
Sono scesi in piazza ristoratori, ambulanti, gente dello spettacolo e si sono spesi per questa lotta anche canali radiofonici, canali di informazione alternativa, qualche ideologo, avvocati, giuristi, ecc.
Ma è come se mancasse qualcosa, che dia forza a questo fronte e che lo renda davvero una minaccia per il sistema dittatoriale creatosi nella realtà dei fatti, anche se si muove sotto le mentite spoglie di quella apparente democraticità, per creare un altro argine del politicamente corretto a difesa del proprio status.
Forse quello che manca, è proprio il concetto di libertà, perché la libertà è proprio un concetto che sta al di sopra della singola lotta. Lottare per aprire il proprio ristorante, non significa avere nel cuore quel concetto di libertà che serve alla lotta e che può fare paura a un dittatore, ma significa lottare per un proprio obiettivo, che una volta raggiunto, spegne ogni ardore.
Se poi il ristoratore ha raggiunto il suo obiettivo, non scenderà in piazza per la difesa degli ambulanti o degli artisti. Proprio perché generalmente non ha quel concetto di libertà che rende gli uomini veramente liberi e che amano non solo la propria libertà, ma anche quella degli altri e che siano disposti a lottare, anche quando è minacciata la libertà del singolo individuo.
Allo stesso modo, anche i canali alternativi, che ci mettono sicuramente passione nel loro lavoro, forse a un certo punto perdono di vista il “concetto” e si concentrano sulla singola lotta, in rappresentanza di un gruppo di portatori di interessi.
Le modalità della protesta dettate dall’alto
Questo rende facile il lavoro dei sistemi dittatoriali, che conoscono bene le dinamiche del “divide et impera”, dettando anche le modalità della protesta. Quindi, ci si ritrova a lottare all’interno del ring che il potere ha costruito, con le sue regole.
Questo non significa realmente lottare ma al massimo fare uno sport, con le regole autorizzate che permettono di agire per quello che è consentito dalla lunghezza della catena.
Non ci si rende conto magari che a volte, dire: “riapro”, mantenendo tutte le regole che vengono date, di distanziamento, igienizzazione, mascherine, ecc. diventa come avere una libertà condizionata, che viene accettata, anche se le regole di fatto sono illogiche o insensate, ma fanno raggiungere l’obiettivo economico per cui si è lottato, arrivando a mediare ed ottenere la libertà con la facoltà di scegliere le varie opzioni delle proprie schiavitù, senza capire che la libertà sta proprio nel “concetto” di sottrarsi a scelte prescritte, che ti mettono davanti ad un bivio, senza darti la possibilità della terza via.
Purtroppo, questo bivio viene accettato se la mediazione porta ad una libertà controllata, che però soddisfa magari il raggiungimento dell’obiettivo di ottenere un pezzo di qualcosa che prima è stato sottratto, come se fosse una conquista l’aver recuperato quel pezzo di libertà, cedendo quel pezzo che forse non sarà più riconsegnato. Questo perché, magari, molte persone che messe al muro dalle condizioni imposte tanto da fargli mancare l’aria, cominciano ad agitarsi, calmandosi appena gli arriva l’ossigeno a sufficienza per respirare.
Perché manca proprio il concetto di libertà, ossia mancano gli uomini liberi nel cuore.
La contraddizione dei nuovi eroi
Quelli che non temono le conseguenze di esprimere il proprio pensiero e non sono disposti a piegarsi a nessun condizionamento, neanche il più piccolo, volendosi riprendere tutto quello che spetta, senza accontentarsi delle briciole di libertà che non comportano rischi.
I nuovi eroi che scendono in piazza, non amano i rischi, perché hanno paure più grandi dei loro sogni, pretendendo di poter fare una rivoluzione con i guanti di seta, con eleganza, tranquillità e delicatezza, non avendo maturato che una rivoluzione è un’insurrezione, anche violenta se serve, dove non ci si accontenta di alcune concessioni, ma dove si fa saltare il banco.
Per questo bisogna rendere evidente questa dittatura, in modo che la rivoluzione diventi un diritto. Una rivoluzione vera, dove si vince o si muore, una di quelle rivoluzioni fatte dai giovani, che di per sé dovrebbero essere biologicamente rivoluzionari, già condannati in partenza perché non hanno interessi personali, né business da mantenere e neppure un nome, capaci di dire “no” e assorbiti dal solo pensiero e dalla passione per la rivoluzione.
Rivolta interiore e individuale
Perché la rivoluzione, prima di essere un fatto collettivo è una rivolta interiore ed individuale, dove non si tollera qualsiasi ingiustizia, sopruso e mancanza di libertà, ovunque essa sia, che diventa una qualità del rivoluzionario.
Senza questo spirito, non ci può essere nessuna rivoluzione. Sapendo che tutte quelle brave persone, quelle che protestano a metà, in attesa di qualche concessione, siederanno in tribuna e aspetteranno fino a quando non capiscono quale sia la squadra che sta vincendo, per poterne poi approfittare senza aver rischiato e facendo poi finta di essere anche artefici.
Sopra tutto questo, i nuovi gestori dell’informazione indipendente, che alla stregua del main stream, si sono focalizzati sugli stessi argomenti, ma dall’altra parte della barricata.
Allo stesso modo, di come sono andate avanti le proteste tiepide dei commercianti, anche loro sembrano avere un vuoto pneumatico sul concetto della libertà, sposando la lotta solo di alcuni obiettivi che si sono dati, trascurando l’essenza che racchiude alcuni concetti fondamentali di libertà, di pensiero e di opinione, venendo a mancare molto probabilmente anche a loro, quell’umus di curiosità e coraggio di alcune verità scomode, che comportano il rischio di dover battagliare su più fronti, in caso si scelga di perseguire strade non battute e non avallate da un certo numero di portatori di interessi e magari non supportate da specialisti del settore.
Questo, forse, comporta l’errore fondamentale di non andare fino in fondo alle cose o addirittura non partire per niente, dovendo magari fare anche lo sforzo di rinunciare a tutte le idee preconcette, su argomenti non conosciuti, proclamando poi con coraggio le verità di ieri, rinunciando alle verità di oggi, che avranno il coraggio di proclamare soltanto domani, quando saranno assodate.
Il caso Palamara
Prendiamo ad esempio il caso Palamara. Tutti sapevano, nessuno osava, nessuno scriveva. Oggi, col senno del poi, tutti hanno il coraggio di dire qualcosa. Ma per chi gestisce l’informazione, la rivoluzione sta proprio nella sua curiosità, tanto da poter diventare insubordinazione, con la caratteristica di un intelletto attivo, su cui si basa la conoscenza, per sapere cosa c’è dall’altra parte del muro, quella sana curiosità che vince la paura ancora di più di quanto possa fare il coraggio, perché la mente curiosa non è mai soddisfatta delle spiegazioni, tantomeno dalle conclusioni, e non si abbandona alla fede o alle menzogne tessute con maestria.
Quelle conclusioni che hanno la capacità di viaggiare per mezzo mondo, mentre nessuno sta ancora ricercando quella verità, che solo la curiosità e il dubbio del vero giornalista, cercatore di verità, possono mettere in discussione. Perché mentre lo spazio della verità è uno spazio ristretto, spesso con qualche problema nel riuscire a focalizzare bene il tutto, lo spazio delle menzogne è infinito e ha dettagli anche nitidi.
Questa critica forse può infastidire l’informazione alternativa, sicuramente piena di pregi, ma anche quella più sensibile ad una critica di coerenza, visto che il main stream non tenterebbe neanche un esame delle sue contraddizioni.
Ma questo può servire, per dare forza proprio ai canali di informazione alternativa, che possono perdere forza nel momento che non ci sarà da sostenere una frangia di protesta, ma solo delle verità, che possono essere poco interessanti per il grande pubblico che tornerà alle sue quotidianità, se non ha maturato un interesse sul concetto proprio di libertà a qualsiasi livello.
Lottare per la libertà?
Certo, c’è da chiedersi se vale la pena lottare per la libertà di qualcun altro, per qualcuno che non farebbe lo stesso per noi e che oggi scende in piazza solo per un suo interesse economico. No, sicuramente non ne vale la pena, ma la spinta rivoluzionaria sta nel fatto, che chi lotta per il concetto vero di libertà non lo fa per gli altri, ma lo fa per sé stesso.
Per appagare quella sua voglia di libertà che ha dentro, per eliminare quel fastidio che sente dentro di sé quando non c’è libertà e non c’è giustizia. Quel fastidio, che sente allo stesso modo chi indossa scarpe con un numero sotto la propria taglia. Lottando anche contro la contraddizione dell’apparato della giustizia e delle forze di Polizia, che per la stragrande maggioranza non sono altro che mercenari, per il fatto stesso che rispondono a chi gli passa lo stipendio e non ai cittadini a cui invece dovrebbero rispondere e dovrebbero proteggere.
Quelle forze di Polizia che sono anche peggio dei mercenari, in quanto questi ultimi si dichiarano mercenari, mentre loro ipocritamente si vestono di protettori dello stato, mentre rispondono come burattini a forze che neanche conoscono. Quindi, non mercenari, ma mercenari di merda. In tutto questo, resta la solitudine dei rivoluzionari, che non possono fare altro che disprezzare anche per chi combattono e trovare sempre solo in sé stessi la forza che li rende sicuramente diversi e li rende uomini.
Fonte: articolo di Roberto Recordare