Nei tribunali Europei si delibera su lavoro e ‘mestiere’ di influencer: particolarmente controversa la questione della malattia dal lavoro principale mentre si effettua parallelamente attività online e se questa può causare il licenziamento.
È notizia delle scorse settimane come nella vicina Spagna sia finito all’attenzione del Tribunal Superior de Justicia de Castilla y León il caso di una influencer licenziata perché aveva un ‘secondo lavoro’ come influencer e non lo aveva comunicato nell’azienda principale fonte del suo sostentamento economico, inoltre era presente online in malattia.
Il caso
La vicenda origina nel lontano 2017, quando una lavoratrice spagnola viene assunta con un contratto a tempo indeterminato. Tutto procede per il meglio, la donna diviene madre quattro anni dopo e una volta terminato il periodo di congedo di maternità previsto dalla legge spagnola, la donna chiede e ottiene la riduzione dell’orario di lavoro. A seguito di una diagnosi di ansia dal novembre 2023 beneficia, poi, del congedo per malattia a seguito del quale la lavoratrice si rimette in salute e riacquista la serenità necessaria per riprendere la normale occupazione.
Questa serenità ritrovata durò poco a seguito di un provvedimento di licenziamento disciplinare, giustificato dal fatto che la dipendente si riteneva colpevole di aver violato le più comuni norme della buona fede contrattuale.
La contestazione riguarda ‘l’abuso della fiducia’ in lei riposta e del diritto al congedo per malattia poiché era stata scoperta a svolgere sui social network, in particolare Instagram e TikTok, l’attività di promotrice di prodotti di bellezza.
“Buona fede contrattuale”
L’espressione “buona fede contrattuale” fa riferimento da un preciso criterio comportamentale, richiesto durante l’esecuzione del contratto. La ‘buona fede’ fa riferimento all’obbligo, per entrambe le parti del contratto, ad agire con lealtà, correttezza e rispetto reciproco, evitando comportamenti opportunistici o sleali che possano danneggiare l’altra parte. Il riferimento, presente nel mondo del lavoro sia in Spagna che in Italia, è quanto contenuto nel nostro ordinamento all’art. 1375 del Codice Civile.
Nello specifico, alla base del licenziamento, l’incompatibilità delle attività di beauty influencer con il ruolo in azienda e il congedo per malattia, con la violazione della buona fede contrattuale, che si andrebbe a configurare nel fattoè stata alla base del licenziamento per giusta causa.
Secondo il datore di lavoro la dipendente nei video nei quali agiva da beauty influencer mostrava al mondo un comportamento positivo e propositivo, ritenuto incompatibile con lo stato di malattia psicologica dichiarato e ancora di più con l’esercizio del diritto al congedo di malattia.
Influencer online e in ‘malattia’ dal lavoro principale: licenziamento in arrivo?
All’interno della motivazione del licenziamento la scelta di dare luogo ad un recesso unilaterale appariva all’azienda una sorta di atto dovuto, dettagliato da alcune evidenti attività, innanzitutto il dato che le attività online di promozione e vendita potessero essere troppo simili, seppur non in diretta concorrenza, a quelle del ruolo lavorativo ricoperto, ossia il ruolo di commerciale di prodotti di telefonia.
In aggiunta, sempre rispetto alle motivazioni alla base del licenziamento, nei video su Instagram e TikTok la donna appariva in uno stato ‘normale’, non provata o particolarmente emaciata, e in un comportamento che non lasciava pensare a un perdurante stato di indisposizione.
Ma è possibile svolgere qualche tipo di attività durante il periodo di assenza dall’ufficio? Per cominciare il tribunale spagnolo ha ribadito l’illegittimità di un licenziamento disciplinare inflitto a questa dipendente a seguito della contestazione in tribunale del licenziamento inflitto.
L’iter giudiziario
Ricostruendo l’intera vicenda giudiziaria, passo dopo passo, in primo grado la donna aveva ottenuto il recesso dal licenziamento e il ribaltamento della decisione ritenuta illegittima. Alla risposta dell’azienda di tentare la carta del successivo grado di giudizio, presentando appello all’art. 193 della Ley Reguladora de la Jurisdicción Social (LRJS) e alla presunta violazione degli artt. 54.1 e 54.2 d) dell’Estatuto de los Trabajadores, testo normativo equivalente al nostro Statuto dei Lavoratori, in materia di licenziamento per violazione della buona fede contrattuale, il datore di lavoro impugnò la sentenza di primo grado.
Tuttavia, il Tribunal Superior de Justicia de Castilla y León, ha confermato l’esito del primo giudice. La sentenza riporta come non possa essere accolta la tesi dell’azienda, che richiedeva come durante il congedo per malattia, il dipendente sia tenuto a non svolgere alcuna attività che possa essere ragione di ostacolo alla ripresa del lavoro. Si sottolineava come la sua dipendente non avrebbe dovuto svolgere alcuna attività, neanche occasionale, che potesse potenzialmente condizionare o rallentare la guarigione.
Secondo il giudice Spagnolo non esistevano gli estremi per una così grave azione, i fatti riscontrati esprimono anzi la buona fede dell’imputata. Sono i fatti a provare come la donna non abbia violato la buona fede. Innanzitutto, i fatti dimostrano come non esista alcuna simulazione della malattia, perché essendo stata diagnosticata una forma di ansia, non una malattia di altro tipo, si metteva in discussione lo stato di incapacità temporanea a svolgere attività lavorativa quotidiana.
Non si tratta di un ostacolo
Il tribunale ha dettagliato la propria decisione, argomentando come il mero svolgimento di attività di pubblicazione occasionale di brevi video, in ambito domestico o comunque in contesti tali da non pregiudicare il recupero delle energie psicofisiche, non possa essere ritenuto di ostacolo al ritorno in ufficio. Alla luce dei fatti ricostruiti, il comportamento della donna non risulta in contrasto con la patologia dichiarata e non si evidenzia alcuna malafede o intento fraudolento, ancora meno la finzione di una malattia.
Queste le motivazioni con il quale Il giudice ha provveduto a rigettare il ricorso dell’azienda. Non risulta inoltre in alcun modo dimostrato un legame diretto tra il percorso di guarigione dal disturbo di salute e l’attività virtuale di influencer. La lavoratrice non voleva né mentire, né ingannare la controparte del rapporto di lavoro, motivo per cui non c’era alcuna prova a riguardo.
La vicenda costituisce un importante precedente giurisprudenziale per il diritto spagnolo ed anche per l’Italia ed Europa. Dalla decisione del giudice iberico emerge l’importanza di valutare per singoli casi, volta per volta, se e in quale percentuale un’attività extra-lavorativa possa realmente interferire con il processo di guarigione. La sentenza spagnola risulta interessante anche perché tocca un tema moderno, come quello dell’esposizione ai social media durante l’assenza dall’ufficio e dal lavoro.
Anche in Italia questo, almeno sulla carta, potrebbe costituire un valido motivo di contestazione disciplinare, ma soltanto se l’azienda riuscisse a dimostrare un comportamento incoerente con la malattia o dannoso per l’immagine aziendale, mentre la mera presenza online, anche come influencer, non sarà sufficiente a giustificare un licenziamento disciplinare.