L’omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi dei costi relativi alle operazioni intercorse con imprese localizzate in Paesi black list non può essere sanata da una dichiarazione integrativa presentata dopo la contestazione della violazione o dopo l’avvio di operazioni di verifica nei confronti del contribuente. Inoltre, fino al periodo d’imposta 2015, le violazioni al regime dei costi black list dovranno essere sanzionate in misura proporzionale del 10% dei componenti negativi non indicati e non con la più grave sanzione della totale indeducibilità dei costi, anche per omissioni anteriori all’entrata in vigore della legge più favorevole, in applicazione del principio del favor rei. Soltanto a partire dal periodo d’imposta 2016, la mancata indicazione del costo non costituirà più violazione sanzionabile, in quanto la legge di stabilità per il 2016 ha abrogato il regime dei costiblack list, stabilendone in maniera esplicita l’irretroattività. Questi i molteplici principi espressi dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 6651 del 6 aprile 2016.
Il fatto
A seguito di una verifica fiscale condotta nei confronti di una società, il compente ufficio dell’Agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento ai fini Irpeg e Irap relativo al 2003, avente a oggetto la ripresa a tassazione dei costi relativi all’acquisto di apparecchiature elettroniche da imprese residenti a Hong Kong. Il rilevo era giustificato dal fatto che la società accertata non aveva evidenziato nel quadro RF della propria dichiarazione dei redditi detti costi, in violazione dell’articolo 110, comma 11, del Tuir, vigente ratione temporis.
A seguito dell’impugnazione, l’adita Commissione di primo grado decideva per l’annullamento dell’atto impositivo, in accoglimento della tesi difensiva per cui la violazione contestata dovesse ritenersi sanata a seguito della presentazione della dichiarazione integrativa, ancorché presentata dopo l’inizio delle operazioni di verifica.
La decisione di primo grado era confermata anche dalla Commissione tributaria regionale, che riconosceva l’efficacia sanante della dichiarazione integrativa. I giudici d’appello rilevavano, inoltre, che l’Amministrazione avesse omesso gli adempimenti prescritti dal citato comma 11, non avendo notificato alla società l’apposito avviso contenente la richiesta di fornire, nel termine di novanta giorni, le prove dell’effettività dell’attività economica svolta dalle imprese estere o dell’esistenza dell’effettivo interesse economico posto alla base delle operazioni.
Avverso la sentenza di secondo grado, l’Agenzia delle Entrate ha presentato ricorso in Cassazione. Con il principale motivo di ricorso, l’Amministrazione finanziaria ha lamentato l’erroneità della sentenza impugnata nel punto in cui i giudici di merito hanno respinto la richiesta di applicazione del principio del favor rei non essendo ostativa, a tal riguardo, la presentazione della dichiarazione integrativa presentata da parte della società, dopo l’avvio delle attività di verifica. In particolare, la ricorrente aveva rideterminato la sanzione nella misura proporzionale del 10% dell’ammontare dei costi non separatamente indicati, secondo la modifica prevista dalla legge 296/2006, articolo 1, comma 302 (entrata in vigore dopo la commissione della violazione), in luogo della più grave sanzione della totale indeducibilità dei costi. La Corte di cassazione, accogliendo la censura dell’Agenzia delle Entrate, ha deciso per la cassazione delle sentenza impugnata e ha condannato la società resistente al pagamento della sanzione proporzionale di 50mila euro.
La decisione
La Corte suprema è stata chiamata a dirimere una particolare questione riguardante il regime sanzionatorio delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni con imprese localizzate in Stati inseriti nella black list, previsto dall’articolo 110, comma 11, del Tuir, nella versione vigente all’epoca dei fatti. La decisione in commento assume particolare importanza perché i giudici di legittimità si sono espressi, per la prima volta, in merito al trattamento del regime dei costi black list alla luce dell’abrogazione disposta dalla Stabilità 2016. Il citato comma 11 condizionava la deducibilità dei costi – derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati – alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari.
Nel caso di specie restano fermi due principi, oramai consolidati in giurisprudenza. In primo luogo, l’omessa separata indicazione in dichiarazione dei costi connessi a operazioni con imprese localizzate in Paesi black list, nel periodo in cui era vigente la relativa disposizione normativa, costituisce una violazione sanzionata in via amministrativa. Inoltre, è preclusa ogni possibilità di regolarizzazione attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa nell’ipotesi sia già avvenuta la contestazione della relativa violazione o siano state già avviate le operazioni di verifica. Infatti, qualora fosse possibile porre rimedio a tale irregolarità, “la correzione stessa si risolverebbe (Corte Cost. n. 392 del 2002) in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni predisposte dal legislatore per l’inosservanza della correlativa prescrizione”.
A conferma di tale tesi, è stato già osservato dalla Corte suprema che ammettere la possibilità per il contribuente di emendare la propria dichiarazione, attraverso la presentazione di una integrativa anche dopo l’avvio di un accesso, ispezione o verifica, sarebbe in contrasto con i principi costituzionali di efficienza e buon andamento dell’Amministrazione finanziaria. Ciò, infatti, vanificherebbe “le attività ispettive e di controllo svolte dagli uffici finanziari, demandando al contribuente la scelta di evidenziare o meno nella dichiarazione fiscale i costi relativi ad operazioni indicate dal Legislatore come altamente sospette in relazione alla tipologia dei soggetti isteri con le quali vengono intrattenute”.
Quanto poi all’ammontare delle sanzioni, giova ricordare che, per effetto della legge 296/2006, articolo 1, commi 301 e 302, il regime dei costi black list è stato modificato. Per effetto della novella normativa, infatti, la deducibilità di tali componenti negative è subordinata soltanto “alla prova dell’operatività dell’impresa estera contraente ed all’effettività delle transazioni commerciali, mentre la separata indicazione di detti costi viene degradata ad obbligo di carattere formale, passibile unicamente di sanzione amministrativa”, nella misura proporzionale del 10% dei costi non dichiarati originariamente (da un minimo di 500 a un massimo di 50mila euro), ai sensi dell’articolo 8, comma 3-bis, del Dlgs 471/1997.
Ebbene, a parere dei giudici di legittimità, il nuovo (e meno gravoso) regime sanzionatorio ha effetto retroattivo, perché il comma 303 ha stabilito che esso si applica anche alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della Finanziaria 2007, “a condizione che il contribuente fornisca la prova di cui all’art. 110, co. 11 del TUIR, vale a dire che l’impresa estera svolgeva una prevalente ed effettiva attività commerciale o che le operazioni poste in essere rispondevano ad un effettivo interesse economico ed avevano avuto concreta esecuzione”.
Fin qui, la Cassazione ha ribadito principi già espressi in precedenti pronunce. Con la sentenza in commento, i giudici apportano un nuovo e inedito contributo alla materia, alla luce dell’abrogazione dei commi da 10 a 12-bis dell’articolo 110 del Tuir, disposta dall’articolo 1, comma 142, lettera a), della legge 208/2015 (Stabilità 2016), che ha parificato il trattamento fiscale dei costi black list alle disposizioni generali sulla deducibilità fiscale dei costi, contenute nell’articolo 110. Secondo i giudici di piazza Cavour, lo ius superveniens non è retroattivo per espressa previsione normativa in quanto, a mente del comma 144, “le disposizioni di cui ai commi 142 e 143 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015”. Pertanto, se da un lato al regime dei costi black list è applicabile il principio del favor rei, dall’altro non può trovare applicazione il principio di legalità previsto dall’articolo 3, comma 2, del Dlgs 472/1997, secondo cui “nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce più violazione punibile”. Se tale principio fosse confermato, l’omessa separata indicazione dei costi nella dichiarazione dei redditi, modello Unico 2016, relativa al periodo d’imposta 2015, sebbene la legge di stabilità 2016 ne abbia abrogato l’obbligo, continuerebbe a essere considerata violazione sanzionabile nella misura proporzionale del 10% dei costi non indicati.