Trentasei vittime decennali delle pressioni del racket di Cosa nostra hanno deciso di parlare dando via a un’inchiesta che ha portato a 22 provvedimenti cautelari.
Bar, centri scommesse, negozi di mobili, supermercati, grossisti di genere alimentari: alla legge del “pizzo” non sfuggiva nessuno. Secondo la regola, ormai tradizionale, del “pagare tutti per pagare poco”. Ma stavolta la fine del copione, classico nella storia di Palermo e provincia,è diversa. Perché in 36, vittime decennali delle pressioni del racket di Cosa nostra, hanno deciso di parlare. Alcune spontaneamente, altre dopo essere state convocate dai carabinieri.
Una sorta di ribellione di massa in un territorio “storicamente soggiogato da Cosa nostra”, dice il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che ha coordinato l’inchiesta che ha portato a 22 provvedimenti cautelari. Boss e capimafia, molti dei quali già detenuti, che da anni strozzano l’economia locale. Qualcosa nel territorio si muove, dunque. “Grazie alla repressione dello Stato e all azione delle associazioni antiracket”, spiega il capo dei pm.
E la svolta fa ancor più impressione se si pensa che il “mandamento” di Bagheria, nel cuore del padrino di Corleone Bernardo Provenzano, ha ospitato e protetto latitanti diventando una sorta di enclave impermeabile all’azione dello Stato. Ma nel tempo lo Stato ha lavorato. L’operazione dell’ Arma che ha portato ai 22 arresti è l’ultima di una lunga serie di “interventi” resi possibili anche dall’aiuto dei pentiti: Sergio Flamia, ex pezzo grosso della cosca, Stefano Lo Verso e Antonino Zarcone che, in questa inchiesta, hanno confermato ruoli e metodi degli estorsori accusati dalle vittime.
Ai vertici del “mandamento” che si allarga a centri come Villabate, Casteldaccia e Ficarazzi, ci sono sempre gli stessi: Nicolò Eucaliptus, Onofrio Morreale, Pino Scaduto. Vecchi padrini che, nonostante la detenzione, non hanno mai abbandonato lo scettro. Di una sorta di “staffetta” nella richiesta del pizzo, invece, parla il procuratore aggiunto di Palermo Leonardo Agueci: “quando gli esattori vengono arrestati – spiega – subentrano altri che poi finiscono in cella, in un alternarsi continuo”.
Le vittime,però, restano le stesse: come l’imprenditore edile Domenico Toia che ha cominciato a pagare quando ancora c’erano le lire. Quasi 30 anni di pizzo che l’ha costretto sul lastrico. Ha chiuso l’attività, ha venduto casa. E solo allora ha deciso di rivolgersi ai carabinieri. “Ero una sorta di cassa privata”, ha raccontato agli inquirenti. “Grazie al coraggio di chi rifiuta ricatti, grazie a carabinieri e inquirenti. Bagheria non é cosa loro”, ha twittato il premier Matteo Renzi, commentando l’operazione dei militari coordinata dalla Dda di Palermo.
“Va sottolineata la scelta coraggiosa di tanti imprenditori che hanno deciso di rompere il muro dell’ omertà e denunciare in un contesto particolarmente difficile e che ora devono continuare a trovare le istituzioni al proprio fianco nella battaglia per la legalità”, ha scritto in una nota la presidente della commissione Antimafia, Rosi Bindi.