Troppi pochi i soldi messi sul piatto dal Governo, come credito d’imposta pari al 40% delle spese per fare siti e-commerce. Per di più ci sono esempi recenti di passi indietro su altri fronti, per incentivi e agevolazioni nel settore. Vediamo il quadro
Il Decreto “Competitività” del 24 giugno scorso è stato convertito (con alcune modifiche) nella Legge n. 116 del 21 agosto 2014. Sebbene il provedimento includa alcune misure di sostegno rivolte all’e-commerce, si deve notare che il legislatore avrebbe potuto “osare” di più in una politica per lo sviluppo del commercio elettronico italiano.
Il Decreto Competitività prevede lo stanziamento di un credito d’imposta pari al 40% delle spese sostenute nella realizzazione e l’ampliamento di “infrastrutture informatiche finalizzate al potenziamento del commercio elettronico” dalle imprese manifatturiere di prodotti agricoli, ittici e d’acquacoltura, con un limite di 50mila euro annui per impresa.
Oltre a interessare una frazione limitata dei potenziali operatori e-commerce – esclude, infatti, gli operatori dell’ecommerce estranei al comparto alimentare e coloro che rivendono beni agricoli ma non li producono -, nel complesso tale misura appare poco “incisiva”, soprattutto visto il ridotto budget finanziario che il Governo le ha riservato: a fronte di una platea di oltre 1.620.844 aziende agricole italiane (fonte: censimento Istat 2010), infatti, sono stati destinati solo 500.000 euro nel 2014, 2 milioni di euro nel 2015 e 1 milione nel 2016. Un’analoga misura è prevista in favore delle reti d’impresa ma anche in questo caso i “numeri” appaiono limitati: 4,5 milioni di euro per il 2014, 12 milioni nel 2015 e 9 milioni nel 2016.
Non è molto, considerando le numerose iniziative che potrebbero e dovrebbero essere assunte per incentivare lo sviluppo del commercio elettronico: da misure che promuovano la raccolta di capitale per finanziare le start up a provvedimenti che amplino le infrastrutture tecnologico-digitali del Paese, da agevolazioni fiscali per le imprese che investono in ricerca e sviluppo fino a riduzioni degli oneri amministrativi per gli esportatori.
Un importante intervento per le imprese e-commerce è stata l’introduzione di benefici amministrativi, lavoristici e fiscali per le start up innovative del settore digitale (e non solo) con il Decreto Legge n. 179 del 2012. In particolare, è stato previsto il riconoscimento di un credito d’imposta per i soggetti che investano nelle start up digitali.
Tuttavia, un successivo (quanto tardivo) decreto ministeriale del 2014 ha ridotto fortemente l’appeal dell’agevolazione in esame, disconoscendola nei confronti degli investitori che, alla data del finanziamento, siano in possesso di una partecipazione superiore al 30%. Questa sopravvenuta specificità della norma ne riduce drammaticamente il raggio d’applicazione, escludendo di fatto dal credito d’imposta molti fondatori di start up.
Un’ulteriore misura agevolativa per il commercio elettronica segnata da cattiva sorte aveva previsto il riconoscimento di un credito d’imposta per le imprese che sviluppassero nel territorio italiano piattaforme telematiche per la distribuzione, la vendita e il noleggio di opere dell’ingegno digitali. Tuttavia, il credito è stato poi cancellato dalla Legge di Stabilità per il 2014.
Si tratta di sostegni alle imprese e-commerce che andrebbero ripristinati, in aggiunta ad un corpo di altre misure agevolative, per creare un ambiente in cui il commercio elettronico possa ulteriormente svilupparsi.
Come risulta da un rapporto del Censis pubblicato il 5 luglio scorso, in uno scenario normativo più favorevole i numeri del commercio elettronico italiano potrebbero crescere in modo sensibile. Infatti, sulla base dei dati forniti dal Censis, le imprese attive nell’e-commerce rappresentano il 5% del totale, contro il 22% della Germania, il 19% del Regno Unito e una media Europa intorno al 14%. Inoltre, il fatturato complessivo delle imprese con almeno 10 operatori, e che realizzano almeno l’1% del fatturato via web, è pari a circa 12,2 miliardi di euro, contro i 96 miliardi del Regno Unito e i 50 miliardi della Germania. Considerando che ad oggi l’Italia è ancora la seconda industria manufatturiera d’Europa, il “gap” risulta evidente.
FONTE: Agenda Digitale (www.agendadigitale.eu)
AUTORE: Roberto Liscia