abolition-147726_640La pena di morte è la punizione dei poveri“. Lo ripete sei volte Mona Rishawi, rappresentante della Commissione diritti umani dell’Onu, a Roma per una conferenza dei ministri della Giustizia di 30 Paesi, organizzata per il decimo anno dalla Comunità di Sant’Egidio.


 

L’incontro si è svolto in settimana per presentare la Giornata internazionale, che si celebra oggi. Il bilancio del fenomeno presenta luci e ombre. “Solo” 23 Paesi su poco più di 200 hanno eseguito pene capitali tra il 2016 e il 2017 – due in meno rispetto al 2015 – con 1.032 persone giustiziate e Cina, Iran, Arabia Saudita e Pakistan ancora in testa, secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International.

 

Mona Rishawi evidenzia come tale pratica colpisca i popoli più svantaggiati: “Chi è indigente non è in grado di assicurarsi una difesa legale adeguata. Inoltre in molti di quei Paesi le istituzioni non consentono un dibattito sul tema poiché non esiste né libertà di espressione né una società civile che possa incoraggiarlo”.

 

Trasparenza e conoscenza sono gli ingredienti della soluzione proposta da Mario Marazziti, esponente storico di Sant’Egidio e attuale presidente della Commissione affari sociali della Camera: “Bisogna creare una rete internazionale per la difesa legale adeguata e competente dei condannati, volta anche a combattere gli errori giudiziari, endemici in certi Paesi”.

 

“Questo network potrebbe appoggiarsi sui movimenti di famigliari delle vittime di omicidio – già esistenti un po’ ovunque – che si oppongono alle esecuzioni per ‘non vogliono aggiungere morte alla morte’, come loro stessi affermano” dice il presidente della Commissione affari sociali. “Inoltre voglio incoraggiare le case farmaceutiche a sanzionare quei governi che usano le proprie medicine per uccidere i condannati. Già 20 si sono espresse contro tale impiego. Negli Stati Uniti ad esempio, dove le iniezioni letali sono molto praticate, alcuni Stati federali hanno aggirato il problema sostituendole con prodotti per animali mai testati prima sull’uomo”.

 

Sebbene gli Stati Uniti non siano più nella ‘top five’ dei Paesi che eseguono più condanne, “se sei povero o nero è molto probabile che sarai condannato“, afferma Magdaleno Rose-Avila, direttore di Witness to Innocence, organizzazione statunitense che si batte per l’abolizione della pena di morte, anche lui presente all’appuntamento romano.

 

“Nel mio Paese una parte della magistratura non usa la giustizia ma i parametri della razza e della classe sociale per emettere le condanne”, denuncia, sottolineando che “se Washington vuole essere un modello per il mondo, deve difendere i diritti umani a partire dai suoi cittadini“.

 

Oltre a un deficit di democrazia e pari opportunità, gli esperti osservano che, laddove è presente il fenomeno del terrorismo, esiste un preoccupante ritorno alla pena capitale, anche in Paesi che vi avevano rinunciato.

 

Il caso dell’Iraq è emblematico: “Nel 2016 ha raddoppiato le esecuzioni – ha detto Marazziti, citando sempre i dati di Amnesty – ma questa politica è priva di senso perché dà ragione ai terroristi che perorano proprio la cultura della morte”. Anche la Nigeria nel 2016, Paese che lotta contro Boko Haram, ha reintrodotto il boia per i terroristi “dopo tre anni di pausa”. Ciad, Giordania, Emirati Arabi, India, Oman e Yemen che nel 2016 hanno invece sospeso le condanne. Cina e Iran, pur essendo i primi Paesi maglia nera per esecuzioni, hanno ridotto leggermente le esecuzioni rispetto all’anno precedente.

 

Infine, Marazziti biasima anche i Paesi che cercano di combattere il mercato della droga condannando a morte i trafficanti: “Duecentocinquanta milioni di persone nel mondo fanno uso di droghe; cercare di risolvere il problema così è perfettamente inutile”.