I beni personali, mobili e immobili, del legale rappresentante della società che ha utilizzato le fatture false emesse dalla cartiera sono passibili di sequestro preventivo, funzionale alla confisca, se risulta il suo coinvolgimento attivo nella frode carosello. È quanto affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza 46857 del 26 novembre 2015.
La vicenda processuale
Il Tribunale del riesame confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip, funzionale alla confisca per equivalente dei beni personali (immobili, mobili, disponibilità finanziarie) dell’imputato per il reato di dichiarazione fraudolenta ai sensi dell’articolo 2 del Dlgs 74/2000, per avere questi, in qualità di legale rappresentante della società a valle destinataria della merce finale, nell’ambito della frode carosello perpetrata, con più atti esecutivi del medesimo disegno criminoso, al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto, utilizzato fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, registrandole nelle scritture contabili obbligatorie e indicandole nella dichiarazione Iva dei periodi d’imposta di riferimento.
L’imputato ricorreva in Cassazione lamentando il vizio di violazione di legge nonché il difetto di motivazione del provvedimento impugnato. In particolare, lamentava la mancanza di motivazione e la non corretta interpretazione della legge penale in ordine alla individuazione dell’ipotizzato profitto. Assumeva, infatti, la difesa privata l’assenza di profitto inteso quale risparmio fiscale, in quanto la società destinataria finale a valle (di cui risultava l’imputato il rappresentante fiscale) della frode carosello perpetrata da società cartiera a monte, riceveva e pagava effettivamente la merce.
La pronuncia della Cassazione
I supremi giudici, investiti della questione, hanno ritenuto la decisione impugnata, pronunciata dal Tribunale del riesame, corretta giuridicamente, nonché congruamente motivata.
Osservazioni
I giudici supremi, in via preliminare, hanno delineato le caratteristiche essenziali dell’istituto della confisca per equivalente, disciplinato dall’articolo 322-ter cp, confermando l’orientamento di legittimità in base al quale “in tema di reati tributari, il sequestro preventivo, funzionale alla confiscaper equivalente, può essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato, con la puntualizzazione che il principio – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa privata –rimane valido anche dopo le modifiche apportate all’art. 322 ter c.p., dalla L. n.190 del 2012”.
Ciò premesso, in ordine alla determinazione del profitto con riguardo a frodi carosello perpetrate mediante l’utilizzo di operazioni soggettivamente inesistenti, la Cassazione ha chiarito che “l’utilizzazione nella dichiarazione fiscale di fatture per operazioni solo soggettivamente inesistenti integra la fattispecie di reato contestata in via cautelare e legittima, a condizioni esatte, il sequestro, anche per equivalente, finalizzato alla confisca del prezzo, del prodotto o del profitto del reato”.
È consolidato, in sede di legittimità, l’orientamento per cui, anche l’inesistenza soggettiva delle operazioni (corrispondente a ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi di cui al caso di specie, nella quale, pur risultando i beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture che ha regolarmente versato il corrispettivo, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto documentato dalla fattura siano falsi) è condotta che può rientrare tra quelle considerate dalla norma incriminatrice, sul rilievo che la falsità ben può essere riferita anche all’indicazione dei soggetti con cui è intercorsa l’operazione, intendendosi per soggetti diversi da quelli effettivi coloro che, pur avendo apparentemente emesso il documento, non hanno effettuato la prestazione, sono irreali, come nel caso di nomi di fantasia, o non hanno avuto, come nella specie, alcun rapporto con il contribuente finale.
Il tutto è avvalorato dalla circostanza che, nel complesso sistema impositivo dell’Iva, il diritto alla detrazione non può prescindere dalla regolarità delle scritture contabili e, in particolare, della fattura, che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa. La medesima disposizione (prevista dall’articolo 21, comma 7, del Dpr 633/1972) secondo la quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura, è esplicita nel senso di imporre il versamento dell’imposta, ma di precluderne la detrazione.
In dette ipotesi, il tributo dovuto viene inteso “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente isolata dalla massa di operazioni effettuate, estraniata dunque dal meccanismo di compensazione tra Iva a valle e Iva a monte, che presiede alla detrazione d’imposta. Ciò, invero, considerato quanto argomentato dalla Corte suprema, “per il rilievo che il versamento dell’Iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta, è evento dirompente, nell’ambito del complesso sistema Iva”.
Altresì, con riferimento ai due poli soggettivi del rapporto negoziale, è stato chiarito (Cassazione, sentenza 13803/2014) come debbano tenersi distinte le vicende relative al rapporto tributario tra il cedente/prestatore di servizi (soggetto passivo emittente la fattura, tenuto a versare allo Stato l’Iva riscossa in rivalsa) e l’Erario, dal differente rapporto tributario che, in conseguenza della dichiarazione fiscale (e della utilizzazione della fattura passiva per la detrazione d’imposta), sorge tra il cessionario/committente e l’Amministrazione finanziaria.
Ritenendo, dunque, rilevante ai fini dell’evasione fiscale, soltanto il mancato versamento dell’Iva da parte del cedente, si aggirerebbero elusivamente le norme che legittimano la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, da parte del cessionario, solo in relazione a effettive operazioni commerciali, con la conseguenza che, in presenza di operazioni inesistenti, non si realizza l’ordinario presupposto impositivo, né la configurabilità stessa di un pagamento a titolo di rivalsa, né i presupposti del diritto alla detrazione.
Nella fattispecie in esame, pertanto, riconducibile alle “frodi carosello”, caratterizzate dal fatto che la merce acquistata dal contribuente che esercita il diritto alla detrazione Iva proviene, in realtà, da soggetto diverso da quello fittiziamente interposto che ha emesso la fattura, incassando l’imposta in rivalsa e omettendo poi di versarla all’Erario, è penalmente imputabile anche il comportamento del cessionario, utilizzatore delle fatture emesse dalla cartiera, salvo che dimostri di non aver avuto (e non aver potuto avere, avendo in proposito adottato tutte le ragionevoli precauzioni) la consapevolezza di partecipare, con il proprio acquisto, a illecito fiscale (Corte di giustizia, sentenza 21/06/2012, nelle cause riunite C – 80/11 e 142/11).
Nel caso in esame, secondo i giudici di piazza Cavour, “deve del tutto escludersi qualsiasi inconsapevolezza da parte del ricorrente circa l’esistenza del meccanismo fraudolento”.
Dal testo dei provvedimenti impugnati è evidente che il meccanismo criminoso fosse strutturato su più livelli per cui la merce, prima di giungere definitivamente alla società rappresentata dall’indagato, “è stata fatta oggetto di numerose operazioni di compravendita, solo cartolari, finalizzate esclusivamente alla creazione in capo alle simulate alienanti, assetti societari riconducibili al ricorrente, di un credito Iva non spettante, mai versato all’erario e al quale va perciò parametrato il profitto conseguito con l’evasione”.