Negli ultimi anni si è creato un vero e proprio fenomeno legato a B&B e case per affitti brevi, con un aumento esponenziale nelle principali città. 


Una lunga riflessione scuote ormai da oltre un anno le Istituzioni di tutti i livelli, circa lo spopolamento dei centri cittadini, sostituiti da case in affitto breve o B&B.

L’analisi, lo scorso anno, promossa da InsideAirbnb.com e ripresa da molta stampa nazionale aveva mappato il numero di annunci presenti, per le maggiori città turistiche Italiane, sulla piattaforma Airbnb arrivando a contare oltre 400 mila unità tra appartamenti e stanze in affitto.

Sempre assumendo per validi i dati raccolti da InsideAirbnb, solo a Firenze e solo sulla piattaforma Airbnb il numero di appartamenti e stanze in affitto, lo scorso anno, ammontava a circa 11.000 di cui 8.200 nel Centro storico, per una percentuale, che fa riflettere, del 75%.

A Roma su Airbnb c’erano circa 25.000 appartamenti e stanze in affitto, 14.000 in centro storico (56%), a Venezia ben 7.500, di cui 6.200 sulle isole principali (85%). A Milano 15.000 dei 20.000 appartamenti sono in zone centrali, mentre a Napoli 6.000 degli 8.000 presenti. Entrambe toccano percentuali del 75%. Dati che hanno scioccato e preoccupato.

Fenomeno B&B e case per affitti brevi: cosa dice la legge

Per questo ed altre motivazioni, tenendo conto del possibile incremento subito dai dati, già comunque numerosi, residenti e proprietari stanno correndo ai ripari, per evitare di vedere i propri vicini sparire, sostituiti da allegre comitive.

Ma cosa dice la norma in proposito?

Proprio nei giorni scorsi il Tribunale di Firenze ha sentenziato che non è possibile vietare di affittare casa ai turisti, di fatto non riconoscendo al regolamento del Palazzo storico la facoltà di vietare il B&B ai turisti, ritenendola “una limitazione della proprietà”.

Secondo la giurisprudenza italiana, il regolamento condominiale ha dignità di regolamentazione interna e può prevedere limitazioni all’uso degli appartamenti.

Tra queste può esservi il divieto di svolgere attività commerciali come, per esempio, un B&B. La sentenza n. 24707 del 2014 della Corte di Cassazione ha stabilito un principio importante riguardo alla corretta interpretazione delle clausole dei regolamenti condominiali. Cioè ha affermato che un regolamento condominiale può imporre limitazioni all’uso delle unità immobiliari, compreso il divieto di attività come l’affittacamere, solo se tali limitazioni sono espresse in modo chiaro e non ambiguo, non può essere perciò semplicemente dedotto da clausole generiche ma è necessario che la singola limitazione sia chiaramente espressa nel regolamento.

Il regolamento condominiale, obbligatorio se il numero dei condomini risulti essere superiore a 10, viene redatto all’atto della costituzione del condominio, può essere modificato successivamente con l’accordo dei condomini e stabilisce l’insieme di regole specifiche che disciplinano l’uso delle parti comuni e delle singole unità immobiliari.

La sua modifica non è però un percorso semplice, soprattutto in materia di limitazioni e divieti di questa tipologia, poiché secondo l’art. 1138 del Codice Civile, per introdurre o modificare una clausola che limiti l’uso delle proprietà private è necessaria l’unanimità dei consensi dei condomini, non basta quindi una maggioranza qualificata.

La Corte di Cassazione, in diverse sentenze, ha ribadito che solo le clausole che impongono vincoli o divieti in modo esplicito possono essere considerate valide e vincolanti per i condomini.

Il regolamento deve essere approvato dall’assemblea con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell’articolo 1136 ed allegato al registro indicato dal numero 7) dell’articolo 1130.

Esso può essere impugnato a norma dell’articolo 1107, soprattutto laddove si ravvisi il pericolo che le norme del regolamento possano ridurre o compromettere i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli articoli 1118, secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137.

In ultima analisi, è a nostro avviso importante distinguere il regolamento contrattuale da quello assembleare.

Il primo viene approvato all’unanimità o contenuto nell’atto di compravendita, ha ovviamente maggiore forza vincolante, mentre il secondo, approvato a maggioranza durante l’assemblea, ha un valore più limitato e può essere impugnato e contestato in sede giudiziaria.

A livello nazionale è il Codice Civile a stabilire che le attività commerciali non devono compromettere il decoro e la tranquillità del condominio.


Fonte: articolo di Rossella Angius