L’Italia potrebbe uscire dalla crisi a testa alta. Almeno, secondo una ricerca condotta da Sace, la società di credito all’export controllata da Cassa depositi e prestiti e intitolata “Alla ricerca della crescita perduta. Opportunità e ritorni di un’Italia più internazionale”.
Come emerge dallo studio, il nostro Paese potrebbe recuperare fino a nove punti di Pil e creare 1,8 milioni di posti di lavoro in quattro anni. Sarebbe “sufficiente” puntare sui mercati esteri. Per la precisione, dovremmo portare l’incidenza dell’export sul Pil dall’attuale 33 per cento al 44. Il processo garantirebbe 40 miliardi di nuove esportazioni, nonché un incremento del reddito nazionale – sempre tra quattro anni – pari a 125 miliardi di euro.
Per riuscire nell’impresa, l’Italia dovrebbe seguire l’esempio degli altri Paesi europei (tra il 200 e il 2013 le esportazioni verso l’Ue di Spagna e Germania, per esempio, sono cresciute ad un ritmo doppio rispetto alle nostre) che hanno attuato per tempo una strategia di diversificazione dei mercati di destinazione e sono cresciuti “grazie a una più generale overperformance su tutte le aree geografiche”.
Per Sace, in particolare, dei 40 miliardi di euro in più, metà potrebbero essere ottenuti dai mercati emergenti a basso-medio rischio e in crescita; 13 miliardi da Cina, Polonia, Algeria, Turchia e India; altri 6 miliardi dal Medio Oriente, dall’Asia e dalla Tunisia.
La crisi che colpisce il nostro Paese da alcuni anni è soprattutto una crisi da domanda interna e, come tale, sta colpendo in modo pesante le aziende orientate al mercato domestico. Le imprese che operano anche sui mercati internazionali reggono meglio, perché più solide in partenza e maggiormente in grado di riorientare la produzione verso le economie in crescita. La propensione all’esportazione è così diventata un indicatore, una proxy, del merito creditizio: nelle decisioni di concessione dei fidi, le banche tendono a discriminare favorevolmente le aziende che esportano e, al contrario, a penalizzare le imprese domestiche.
Negli Stati Uniti, la vendita dei prodotti di un’impresa dell’Indiana a un’altra in California non è un’esportazione. Analogamente, nel mercato comunitario europeo siamo in presenza di una moneta unica, di un sistema tariffario omogeneo, di normative condivise. Anche la cultura e le preferenze dei consumatori sono simili e le distanze geografiche brevi. L’unica cosa che ci differenzia è la lingua, ma ormai tutti gli agenti economici operano in inglese. Non dovremmo quindi iniziare a considerare questi Paesi come “mercato domestico comune”?
Ci sono poi gli altri Paesi industrializzati, da tempo aggrediti commercialmente dalle nostre imprese, più lontani e difficili di quelli europei, ma con altrettante importanti affinità culturali, normative, e così via. Si tratta di sistemi economici consolidati, di sistemi politici e di governance più prevedibili e con rischi (si pensi a quello valutario) di più facile copertura sul mercato. Rimane un’ultima categoria che include i Paesi emergenti, i Paesi in via di sviluppo e anche i Paesi che presentano situazioni di conflitto bellico o che ne stanno uscendo con difficoltà. Sono questi i mercati dove SACE può fare la differenza.
Il Rapporto Export di quest’anno evidenzia come la performance di questi diversi gruppi di Paesi, negli ultimi anni, sia stata differenziata. Alla contrazione della domanda interna del nostro Paese si è sommato il calo della domanda del resto dei mercati europei; gli altri Paesi industrializzati hanno tenuto; l’unica area di aumento per le nostre esportazioni è stata quella dei mercati emergenti. Possiamo definire il commercio verso questo terzo gruppo di Paesi come il “nuovo export”.
Consulta l’allegato: Rapporto-SACE-export-2014
FONTE: CGIA Mestre