Expo, finora, si porta appresso solo promesse disattese. Oltre all’indignazione per lo scoppio di una nuova Tangentopoli: sette arresti e 2,4 milioni di presunte tangenti. Per cancellare quest’alone negativo, nei dibattiti pubblici torna prepotente l’idea “sociale” di Expo: la portata dei temi internazionali al centro dell’esposizione (alimentazione ed energia), la messa in circolo di 10 mila volontari, la diffusione dei meccanismi virtuosi della sharing economy, la presenza di un padiglione dedicato apposta alla società civile (Cascina Triulza). Ad ogni formula si aggiunge l’attributo, declinato all’inglese e all’italiana:“agricoltura sociale”, “responsabilità sociale”, “social business”. E il mantra è creare un’Expo “accessibile”, “aperta” e “inclusiva”.

L’impressione, però, è che tutte queste parole siano utilizzate come una pecetta per rattoppare le ferite provocate dalla corruzione, dai ritardi, dall’impreparazione complessiva dimostrata fino ad oggi. “Sociale” è una formula per diluire e stemperare le contraddizioni. Ma dove sta l’elemento sociale in Expo? È possibile parlarne se di fronte agli occhi ci sono scandali, ritardi e lavoro precario?

Le cifre sono tutte qui a raccontare le contraddizioni, anche “sociali”, di Expo. Doveva essere l’occasione per un rilancio dell’economia milanese: 102 mila posti di lavoro tra il 2012 e il 2020, calcolava Expo, a cui se ne dovevano aggiungere altri 27 mila in Lombardia. Le stime sono già state ridimensionate: negli ultimi due anni i nuovi assunti sono stati 4 mila. Pochi. E il lavoro è precario: il 49% delle assunzioni con contratti a tempo determinato. Questi dati sono raccolti nel Rapporto sulla città di Milano 2014, curato dalla Fondazione Ambrosianeum, che rivela quanto cronico sia il ritardo con cui la città si avvicina ad Expo. E alla mancanza di lavoro oggettiva, si risponde offrendo i 10 mila volontari che frequenteranno l’esposizione durante i sei mesi. Ma non sono la stessa cosa: il volontariato dovrebbe avere un valore di per sé e non trasformarsi in lavoro a costo zero.

E poi ci sono “le fasce deboli”, segno dell’Expo accessibile. Roberto Formigoni, all’epoca ancora saldamente al comando di Regione Lombardia, aveva promesso il 26 maggio 2011 “mille posti di lavori per le persone con disabilità”. Spariti. Fabio Pizzul, consigliere regionale Pd, in Consiglio ne ha chiesto conto. E di nuovo la responsabilità è stata scaricata sui ritardi. Gli unici lavoratori appartenenti a fasce debole impiegati sono i detenuti della Cooperativa Estia. Colpa dei ritardi, si giustificano da Expo, dovuti alla pioggia, alle lungaggini burocratiche dei controlli. O forse è più colpa di come sono intesi i grandi eventi all’italiana. Dove il sociale, se c’è, serve solo da diversivo ad altri interessi.

FONTE: Redattore Sociale (www.redattoresociale.it)

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