La responsabilità del professionista, nella fattispecie un avvocato, non può essere esclusa né ex articolo 47 del codice penale né per ignoranza inevitabile della norma di riferimento. Risponde del delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice il debitore che, sottoposto a pignoramento mobiliare, omette di dichiarare all’ufficiale giudiziario l’esistenza di un suo reddito da pensione.
Lo ha affermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 27941 del 6 luglio 2016.
I fatti
Una ex dipendente vantava, nei confronti di un legale, un credito da lavoro e, per ottenerne il soddisfacimento, ha promosso un procedimento esecutivo. L’avvocato, in qualità di debitore sottoposto a pignoramento mobiliare, ha dichiarato di non possedere alcun bene pignorabile all’ufficiale giudiziario che lo aveva invitato a indicare le cose e i crediti da sottoporre a pignoramento. Si trattava di una dichiarazione falsa, poiché, invece, dai controlli eseguiti, risultava che aveva disponibilità di un reddito da pensione. Di conseguenza, i giudici di merito hanno ritenuto il legale colpevole del delitto ex articolo 388, comma 6, del codice penale.
Il professionista ha proposto ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, che:
a) nella querela della dipendente non veniva indicato alcun fatto specifico, di natura commissiva, tra quelli previsti dall’articolo 388 del codice penale, e che non si evinceva alcuna volontà che il legale venisse punito, rimettendosi la querelante alle valutazioni della Procura della Repubblica
b) poteva ritenersi che egli stesso era incorso in un errore di fatto, ex articolo 47, comma 3, cp, sulla norma extrapenale (poiché non era a conoscenza della sentenza n. 506/2002, con la quale la Corte costituzionale aveva reso pignorabili anche le pensioni di notai e avvocati)
c) tale errore aveva efficacia di esimente anche in considerazione del fatto che la pensione era ritenuta impignorabile anche dalla dipendente, sua creditrice, e dalla Guardia di finanza
d) non ricorreva la fattispecie prevista dalla norma incriminatrice (l’uomo si era limitato ad affermare di non possedere beni pignorabili, essendo convinto, in buona fede, che la propria pensione fosse impignorabile, e non aveva affatto dichiarato di non percepire alcuna pensione e nemmeno di non possedere beni)
e) la persona offesa non doveva individuarsi nella dipendente creditrice, ma solo nell’amministrazione della giustizia, che non si era costituita parte civile.
La Corte ha rigettato il ricorso e ha precisato che “… non è ravvisabile l’ipotesi di cui all’art. 47,comma 3, cod. pen., poiché le norme che attribuiscono ad un bene il carattere di pignorabilità integrano il precetto penale, essendo in esso incorporate, in quanto l’art. 388, comma 6, cod. pen. fa espresso riferimento alle cose o ai crediti ‘pignorabili’, con ciò richiamando le disposizioni di legge in tema di pignorabilità. Ne deriva che l’ignoranza o l’errore circa la pignorabilità di un bene si risolve in ignoranza o in errore sulla legge penale…”.
Osservazioni
Dopo aver affermato che il tenore testuale dell’imputazione era chiaro e preciso nella formulazione dell’addebito (la contestazione, infatti, riportava la dichiarazione resa dall’avvocato, specificava il nominativo del creditore procedente, il luogo e la data del fatto, la fonte del reddito pensionistico e l’importo della pensione) e aderiva quindi al dettato dell’articolo 388, comma 6, cp, la Corte ha ritenuto che nelle espressioni “Si chiede che sia valutata, nei confronti dell’avv. …, l’ipotesi di reato ex art. 388, comma 6, cod. pen. e/o quant’altro codesta Procura della Repubblica intenda ravvisare” e “Si esprime la volontà di punizione dell’autore del reato”, era da ravvisarsi, in modo univoco, l’esternazione della volontà che il colpevole fosse perseguito penalmente.
Una volta ritenuta sussumibile la condotta del legale nella fattispecie prevista dalla norma incriminatrice, i giudici di legittimità sono passati a verificare se il professionista, interpretando la norma, fosse incorso in errore.
Hanno, quindi, evidenziato l’ignoranza sul precetto sotto un duplice profilo: come ignoranza o errore sulla legge extrapenale, ex articolo 47, comma 3, cp, o come ignoranza inevitabile della norma penale, ex articolo 5 cp (nel testo risultante dopo le modifiche apportate dalla sentenza della Corte costituzionale 364/1988).
In particolare, con riferimento alle norme extrapenali, la Corte ha richiamato la distinzione dalla stessa elaborata fra norme extrapenali integratrici del precetto (essendo in esso incorporate, sono da considerarsi legge penale) e norme extrapenali non integratrici del precetto (le disposizioni destinate, ab origine, a regolare rapporti giuridici di carattere non penale, non richiamate affatto, neppure implicitamente, dalla norma penale). Tale distinzione rileva perché, mentre l’errore sulle prime non scusa ex articolo 5 cp, quello che cade sulle seconde esclude la punibilità, generando un errore sul fatto, ex articolo 47, comma 3, cp. La Corte ha subito chiarito che le norme che attribuiscono a un bene il carattere di pignorabilità integrano il precetto penale e, quindi, la punibilità dell’avvocato non poteva essere esclusa invocando l’articolo 47 del codice penale.
Restava da verificare se, allora, sulla base dei parametri consolidati, elaborati in sede di legittimità, poteva sostenersi che il legale, pur avendo effettuato una falsa dichiarazione, vi era stato indotto dalla inevitabile ignoranza della legge penale. A tale riguardo, la Cassazione, seguendo un primo criterio oggettivo (secondo il quale qualsiasi consociato, in una determinata situazione di tempo, di luogo e di fatto, sarebbe incappato nell’ignoranza o nell’errore sulla norma penale per motivi diversi), ha escluso che potesse parlarsi di oscurità o contraddittorietà del testo legislativo in tema di pignorabilità della pensione, di caos interpretativo generalizzato e di estraneità del contenuto delle norme ai valori sociali correnti e alla sensibilità dell’agente.
E neppure poteva escludersi la responsabilità del legale, seguendo l’altro criterio, quello soggettivo: la Cassazione ha sottolineato che la norma penale poteva essere ignorata dal destinatario se le sue caratteristiche personali avevano influito sulla conoscenza del precetto e cioè se, ad esempio, il soggetto agente aveva un elevato deficit culturale, conseguente, ad esempio, alla condizione di straniero proveniente da aree socio-culturali molto distanti dalla nostra e da poco in Italia, ovvero se aveva manifestato un’incolpevole carenza di socializzazione. Condizioni, queste, non sussistenti per il legale.
Infine, anche a mente del “parametro misto”, la Corte non è pervenuta a conclusioni diverse. E cioè, utilizzando criteri oggettivi e soggettivi, combinati tra loro in varia misura e con diverso spessore, la Cassazione ha evidenziato che l’esimente della buona fede non poteva trovare applicazione: il professionista non aveva dimostrato di aver fatto tutto il possibile per adeguarsi al dettato della norma (ad esempio, informandosi presso gli uffici competenti o consultando esperti in materia) e di averla comunque violata per cause indipendenti dalla sua volontà senza che potesse essergli mosso alcun rimprovero, neppure di semplice leggerezza. Non aveva provato, infatti, di aver assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al “dovere di informazione”, espletando gli opportuni accertamenti utili per conseguire la conoscenza della normativa vigente.
In conclusione, nella fattispecie esaminata, i giudici di piazza Cavour hanno chiarito che l’ignoranza o l’errore circa la pignorabilità di un bene si risolveva in ignoranza o in errore sulla legge penale, e hanno statuito che la responsabilità dell’avvocato non poteva essere esclusa né ex articolo 47 del codice penale né per ignoranza inevitabile della norma.