Il datore di lavoro che omette il versamento dei contributi previdenziali dovuti ai dipendenti è legittimamente sanzionato due volte, sotto il profilo amministrativo e penale, senza che ciò violi il principio del “ne bis in idem” secondo cui nessuno può essere giudicato o condannato due volte per i medesimi fatti.
In tema di omesso versamento contributivo, inoltre, la crisi di liquidità dell’azienda non è da considerarsi causa di esclusione della pena in quanto nella fattispecie criminosa sussiste il dolo generico, costituito dalla consapevolezza del soggetto di omettere il versamento di quanto dovuto. Così ha sancito la Corte di cassazione con la sentenza 31378 del 20 luglio 2015.
Il fatto
La controversia è sorta nel corso di un giudizio penale in cui un imprenditore è stato ritenuto colpevole del reato di omesso versamento dei contributi previdenziali dovuti ai lavoratori dipendenti ai sensi dell’articolo 2 del Dl 463/1983.
Avverso la sentenza della Corte di appello l’imputato ha proposto ricorso per cassazione eccependo, come primo motivo di doglianza, violazione del principio del “ne bis in idem”, secondo cui nessuno può essere condannato o giudicato per i medesimi fatti.
A tal proposito, il ricorrente obiettava che, prima di essere condannato per il reato di omesso versamento, egli fosse già stato condannato in via definitiva per lo stesso fatto storico al pagamento della sanzione pecuniaria amministrativa ai sensi dell’articolo 116, comma 8, lettera a), della legge 388/2000. Considerato che tale primo procedimento, seppur formalmente di natura civilistica, aveva natura sostanzialmente penale, l’indagato invocava il proscioglimento dal reato contestato successivamente per il principio del “ne bis in idem”.
Con un secondo motivo, il ricorrente lamentava l’errore della Corte di appello, che non aveva considerato, nella qualificazione del reato di omesso versamento, l’esimente costituito dalla crisi di liquidità dell’azienda di cui era titolare e della correlata assenza del dolo, ossia dell’elemento psicologico del reato.
I giudici di Cassazione hanno deciso per il rigetto del ricorso per la manifesta infondatezza dei motivi addotti.
La decisione
La questione ruota sulla qualificazione sostanziale di una norma di natura civilistica che, per la sua natura afflittiva, acquisirebbe caratteristiche proprie di una sanzione penale. Se ciò fosse dimostrato, nel caso in esame opererebbe il principio del divieto del “ne bis in idem”. In altre parole, essendo stato condannato al pagamento di una sanzione civile per l’omesso versamento di contributi previdenziali, avente natura asseritamente penale, il ricorrente andrebbe prosciolto per il reato connesso al mancato pagamento dei medesimi contributi, regolato dall’articolo 2, comma 2, del Dl 463/1983, perché nessuno può essere condannato due volte per gli stessi fatti.
La norma civilistica in parola è contenuta nell’articolo 116, comma 8, lettera a), della legge 388/2000, che testualmente recita “i soggetti che non provvedono entro il termine stabilito al pagamento dei contributi o premi dovuti alle gestioni previdenziali ed assistenziali, ovvero vi provvedono in misura inferiore a quella dovuta, sono tenuti nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie, al pagamento di una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40 per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge”.
L’esame compiuto dai giudici di legittimità ha riguardato sia l’aspetto formale che sostanziale del richiamato articolo 116. Sotto il primo punto di vista, non vi sono dubbi sul carattere civilistico della disposizione, che rientra in un corpo normativo atto a favorire l’emersione del lavoro irregolare: da qui, l’assoluta esclusione di natura penale della sanzione.
Al di là del nomen juris, la Corte, inoltre, ha esaminato le disposizioni dal punto di vista sostanziale, così da verificare l’eventuale carattere intrinsecamente penale.
Anche sotto questo aspetto, la Cassazione ha rigettato la tesi del ricorrente “in quanto mentre la sanzione prevista dall’art. 2 comma 1 bis della L. 638/83 mira a tutelare il diritto del lavoratore in danno del quale il datore di lavoro si è appropriato delle somme a lui riservate (tanto che comunemente il delitto previsto dalla legge sopra ricordata viene accostato alla figura dell’appropriazione indebita), la sanzione contemplata nell’art. 116 citato ha effetti ristoratori verso l’INPS e dunque assume caratteri sostanzialmente, e non solo formalmente, civilistici”.
Se ne deduce, pertanto, che il medesimo episodio di omissione dei contributi previdenziali dovuti sui lavoratori è certamente sanzionabile due volte: sul piano amministrativo, ex articolo 116, comma 8, lettera a), della legge 388/2000, e sul diverso piano penale ai sensi dell’articolo 2 del Dl 463/1983, in quanto è da escludersi l’identità del fatto – come erroneamente affermato dal ricorrente – considerato che “per identità del fatto non basta certo la medesimezza dell’avvenimento storico, ma occorre che siano identici tutti i tratti caratteristici”.
Passando all’esame del secondo motivo di doglianza, la Corte ha dichiarato infondato quanto lamentato dall’indagato riguardo alla crisi di liquidità quale esimente penale.
Sotto tale profilo, la giurisprudenza della Cassazione è concorde nell’escludere qualsiasi rilevanza sotto il profilo soggettivo della circostanza che il datore di lavoro, a causa di un momento di crisi di liquidità, destini le risorse finanziarie al pagamento di debiti ritenuti più urgenti, quali il pagamento degli stipendi dei dipendenti. A sostegno di tale tesi, i giudici di legittimità hanno ribadito che “l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice è il dolo generico costituito dalla consapevolezza scelta da parte del soggetto obbligato di omettere il versamento di quanto dovuto” (in senso conforme, Cassazione 3705/2013 e 13100/2011).