Con il “ripassaggio” della proprietà in capo alla società cedente prima che siano trascorsi cinque anni, si perde il diritto all’agevolazione se non si riacquista entro un anno.
La pattuizione, successiva al contratto di compravendita, tra le parti originarie, con cui si verifica la “retrocessione” del bene, adibito a propria abitazione, nuovamente in capo all’originario cedente, non configura un’ipotesi di revoca del primo atto, bensì un nuovo contratto di compravendita infraquinquennale, senza riacquisto entro l’anno e con effetti decadenziali dall’agevolazione prima casa.
È quanto statuito dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 791 del 20 gennaio 2015.
Evoluzione processuale della vicenda
La vicenda trae origine dall’avviso di liquidazione delle imposte inviato al contribuente per “decadenza da agevolazione prima casa”, a seguito di cessione di un immobile, adibito a propria abitazione, nel termine di cinque anni dall’acquisto, senza necessario riacquisto entro l’anno.
La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso proposto dal contribuente avverso l’avviso di liquidazione con il quale l’Amministrazione recuperava le imposte ordinarie.
Avverso la sentenza della Ctp, l’Amministrazione finanziaria proponeva a sua volta appello alla Commissione tributaria regionale, la quale rigettava l’appello principale dell’Agenzia delle Entrate, osservando che “la cessione dell’unità immobiliare compiuta l’anno successivo all’acquisto, e quindi entro il quinquennio, senza che il cessionario avesse provveduto ad acquisirne altra entro un anno da tale alienazione, non costituiva un vero e proprio contratto di compravendita, trattandosi piuttosto di risoluzione di quello precedente, con il conseguente venir meno degli effetti di esso, come si evinceva dal tenore del relativo atto notarile del dicembre 2005”.
L’Agenzia delle Entrate ricorreva, quindi, in Cassazione con un unico motivo di ricorso: violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 1, nota II-bis, tariffa parte prima, allegata al Dpr 131/1986.
A parere della ricorrente, la Ctr non considerava che l’appellato non poteva beneficiare dell’agevolazione invocata, atteso che il secondo contratto, ancorché indicato come di risoluzione, in realtà costituiva una vera e propria cessione del bene, e quindi un trasferimento della proprietà alla precedente proprietaria, senza che gli effetti del primo negozio fossero stati posti nel nulla, con la conseguenza perciò che, ai fini fiscali, il secondo era stato stipulato entro il quinquennio dal primo, senza che fosse stato seguito entro un anno dall’acquisto di altro immobile da adibire ad abitazione principale.
Pronuncia della Cassazione
La Cassazione, accogliendo le doglianze dell’Amministrazione finanziaria e decidendo nel merito, con la sentenza in commento, afferma che “la successiva pattuizione delle parti originarie del contratto, con cui questo veniva sciolto, veniva a privare l’operazione della necessaria caratteristica temporale richiesta dalla disposizione agevolatrice, posto che si verificava la retrocessione del bene, e quindi la trasmissione della proprietà, nuovamente in capo alla società cedente, e non piuttosto per effetto di declaratoria di nullità di esso, senza che tale nuova convenzione potesse fare venire meno gli effetti della prima rispetto ai terzi, e in particolare all’Erario”.
La suprema Corte sottolinea, inoltre, che al caso di specie non potrà applicarsi nemmeno il disposto dell’articolo 38 del Dpr 131/1986, secondo il quale l’imposta assolta per la registrazione del contratto dovrà essere restituita (per la parte eccedente l’imposta corrisposta in misura fissa) se lo stesso viene dichiarato nullo o annullato.
Infatti, secondo i giudici supremi, l’articolo sopra richiamato ha per oggetto le sole ipotesi di nullità e annullabilità dell’atto (analogamente all’ipotesi di revoca del beneficio per scioglimento del contratto), senza alcun riferimento agli ulteriori casi di inefficacia contrattuale, derivante da altre e diverse ragioni, come nel caso di specie la stipula di un successivo contratto.
La Cassazione, già con sentenza 4971/2003, aveva ritenuto che il legislatore tributario, con l’articolo 38, comma 2, avesse previsto la restituzione dell’imposta nei soli casi in cui “la patologia dell’atto e la sua conseguente inidoneità alla produzione di effetti giuridici siano ascrivibili a vizi esistenti ab origine e non invece sopravvenuti”.
Nella diversa ipotesi in cui il contratto, pienamente valido e operante a far data dalla sua stipulazione, non è più tale per una causa sopravvenuta, qualunque essa fosse, non si applicherà l’articolo 38 (cfr Cassazione 7340/2011 e 2698/2002).
FONTE: Fisco Oggi – Rivista Telematica dell’Agenzia delle Entrate
AUTORE: Salvatore Tiralongo