sanzioni, personalePer il 50,5% degli italiani la pubblica amministrazione funziona male, per il 63,5% non è cambiata e per il 21,5% è addirittura peggiorata. Chiedono il pugno di ferro per corrotti e fannulloni: il 45,3% vorrebbe regole più severe e licenziamenti nel pubblico impiego. Ma 4,2 milioni di cittadini sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un’autorizzazione o accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un regalo a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore.

 

Rischio blocco dello sviluppo a causa di una pubblica amministrazione inefficiente. Per cavalcare l’onda della ripresa ora ci si attende un contributo importante dalla politica. Ma, per fare sviluppo, il rilancio della decisionalità politica ha bisogno di una buona burocrazia che lavori all’implementazione operativa delle riforme. Oggi però il 50,5% degli italiani pensa che la pubblica amministrazione funzioni male (il dato sale al 59% al Sud) e solo per meno dell’1% funziona molto bene. Per il 63,5% nell’ultimo anno la pubblica amministrazione non è cambiata, per il 21,5% è addirittura peggiorata e solo per il 15% è migliorata. Per farla funzionare meglio il 45,3% degli italiani chiede in primo luogo il pugno di ferro per punire i corrotti e regole più severe per licenziare i finti malati. Il 34,7% vorrebbe l’assunzione di dirigenti giovani, dinamici e capaci di organizzare meglio le cose. Il 22,1% chiede che i dipendenti pubblici siano licenziabili come quelli che lavorano nel privato e il 19,3% vuole che i più meritevoli vengano pagati meglio.

 

Intanto, per ottenere autorizzazioni e accelerare pratiche restano le solite maniere: dalla raccomandazione al regalino. Per ottenere un’autorizzazione o accelerare una pratica nella pubblica amministrazione 4,2 milioni di italiani hanno fatto ricorso a una raccomandazione o all’aiuto di un parente, amico, conoscente. All’inefficienza della pubblica amministrazione gli italiani si adattano secondo una doppia morale. Sono quasi 800.000 le persone che hanno fatto un qualche tipo di regalo a dirigenti e dipendenti pubblici per avere in cambio un favore. Un altro sintomo delle difficoltà di rapporto dei cittadini con la pubblica amministrazione è il ricorso a soggetti di intermediazione (Caf, patronati, ecc.) per relazionarsi con gli uffici pubblici: nell’ultimo anno lo hanno fatto 3,3 milioni di italiani.

 

Pronti per la ripresa? Un milione di imprese in rampa di lancio. Il nostro Paese dispone di una corazzata di oltre un milione di società di capitali attive: sono le più robuste e strutturate nell’universo di 5,2 milioni di imprese italiane complessive, quelle in grado di attirare risorse e mettersi in marcia verso la ripresa. Sono aumentate del 105% tra il 2000 e il 2014 e del 33,5% anche negli anni di crisi 2007-2014. E ci sono 212.000 imprese esportatrici e soggetti economici che fanno business all’estero (+7.200 nel periodo 2007-2013), per un valore dell’export pari nell’ultimo anno a 380 miliardi di euro. Crollo del prezzo del petrolio, euro debole sul dollaro e denaro a basso costo mettono le ali alle imprese italiane che vanno per il mondo. Nemmeno nella crisi è venuto meno il vizio antico degli italiani del fare impresa: a fine 2014 si è registrato un saldo attivo di 32.000 imprese aggiuntive, con un’onda più intensa nelle regioni centrali (quasi 13.000 imprese in più nell’anno) e nelle province di Roma (+10.398 imprese) e Milano (+7.648 imprese). Basse locazioni commerciali, nuove tecnologie e modalità organizzative rinnovate abbassano le soglie di ingresso per gli operatori in molti settori economici. Gli effetti positivi si vedono soprattutto nella ristorazione (quasi 11.000 imprese registrate in più nel 2014) e nel commercio (+7.500 imprese), oltre che nei servizi alle imprese (+9.300). Decollano anche le start up innovative, tra commercio online, servizi mobile e app: sono oggi più di 3.500.

 

La priorità sociale nella ripresa: no al precariato. L’antidoto più efficace per le patologie sociali è la creazione di lavoro. Il bilancio dell’occupazione nel periodo della crisi testimonia la perdita di 615.000 posti di lavoro e l’aumento del precariato. Sui nuovi assunti del 2013 le persone con contratto a tempo determinato (inclusi i cocopro) sono state il 60,2% del totale, mentre nel 2007 erano il 51,3%. E tra i giovani la percentuale sale al 69,6%, mentre nel 2007 erano il 56,9% (con un balzo di 12,7 punti percentuali). I precari sono stati i più colpiti dalla crisi, con licenziamenti e contratti non rinnovati. Sono l’11,6% degli occupati totali, ma sono il 31,2% dei licenziati o usciti dal lavoro nell’ultimo anno. Il costo del precariato è stato pagato di fatto dalle famiglie, con l’erogazione di oltre 4 miliardi di euro annui per i millennials (18-34 anni) privi di risorse che vivono per conto proprio. Ora che si annuncia la ripresa, gli italiani dicono no a ogni forma di precariato. Per il 67,5% pagare meno o dare meno tutele a chi entra nel mercato del lavoro non è giusto, perché si creano fasce di lavoratori penalizzati e facilmente ricattabili. Il 19,3% lo considera inevitabile, altrimenti le aziende non assumerebbero nuovo personale (devono poterlo mandare via se non vale). Per il 13,2% invece è giusto, perché per forza di cose il nuovo arrivato è meno capace e produttivo: deve imparare.

 

Le patologie sociali che la ripresa deve curare. Le persone a rischio di povertà o esclusione sociale in Italia sono aumentate di oltre 2,2 milioni negli ultimi sei anni di crisi: sono passate da 15.099.000 a 17.326.000. Il tasso di persone a rischio di povertà o esclusione sociale è pari al 28,4% in Italia, superiore a Spagna (27,3%), Regno Unito (24,8%), Germania (20,3%) e al valore medio dell’Ue (24,5%). Le disuguaglianze sono aumentate perché chi meno aveva più ha perso: nell’ultimo anno gli operai hanno avuto un taglio della spesa media familiare mensile del 6,9%, gli imprenditori del 3,9% e i dirigenti dell’1,9%.