Nell’«Italia dello zero virgola», in cui le variazioni congiunturali degli indicatori economici sono ancora minime, continua a gonfiarsi la bolla del risparmio cautelativo e non si riaccende la propensione al rischio. Ma c’è una piattaforma di ripartenza del Paese: una geografia dei vincenti che gioca sul driver dell’ibridazione di settori e competenze tradizionali. Che così si trasformano: è il nuovo Italian style.
Oltre il cash cautelativo, zero rischi: dove andranno i soldi degli italiani. Nel corso dell’anno i principali indicatori economici hanno cambiato segno ed evidenziano movimenti verso l’alto nell’ordine di qualche decimale di punto percentuale. Ma nell’«Italia dello zero virgola» continua a gonfiarsi la bolla del cash cautelativo. Lo dimostra il tasso di inflazione, inchiodato intorno allo zero nonostante il poderoso sforzo della Bce con il quantitative easing, così come gli investimenti nulli.
Ammonta a più di 4.000 miliardi di euro il valore del patrimonio finanziario degli italiani. In quattro anni (giugno 2011-giugno 2015) ha registrato un incremento di 401,5 miliardi: +6,2% in termini reali. Negli anni della crisi la composizione del portafoglio delle attività finanziarie delle famiglie ha sancito il passaggio a una opzione fortemente difensiva degli italiani: il contante e i depositi bancari sono saliti da una quota pari al 23,6% del totale nel 2007 al 30,9% nel 2014, mentre sono crollate le azioni (dal 31,8% al 23,7%) e le obbligazioni (dal 17,6% al 10,8%).
Negli ultimi dodici mesi (giugno 2014-giugno 2015) si conferma l’opzione cautelativa degli italiani, con un incremento di 45 miliardi di euro della liquidità (+6,3%) e di 73 miliardi in assicurazioni e fondi pensione (+9,4%), e con la rinnovata contrazione di azioni e partecipazioni (10 miliardi in meno, pari a una riduzione dell’1,2%). La diversità sta però nell’impennata delle quote di fondi comuni, segno di un allentamento della morsa dell’ansia: 108 miliardi in più in un anno (+32,8%). Non si torna però alla fiduciosa assunzione del rischio individuale, consapevoli che l’azzardo lascerebbe impresse cicatrici profonde sulle proprie solitarie biografie personali.
D’altro canto, il risparmio è ancora la scialuppa di salvataggio nel quotidiano, visto che nell’anno trascorso 3,1 milioni di famiglie hanno dovuto mettere mano ai risparmi per fronteggiare gap di reddito rispetto alle spese mensili. Riguardo agli investimenti, il mattone ha ricominciato ad attrarre risorse. Lo segnala il boom delle richieste di mutui (+94,3% nel periodo gennaio-ottobre 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014) e l’andamento delle transazioni immobiliari (+6,6% di compravendite di abitazioni nel secondo trimestre del 2015 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). E si diffonde la propensione a mettere a reddito il patrimonio immobiliare: 560.000 italiani dichiarano di aver gestito una struttura ricettiva per turisti, come case vacanza o bed & breakfast, generando un fatturato stimabile in circa 6 miliardi di euro, in gran parte sommerso. In questa fase, l’esigenza della riallocazione del risparmio in modo più funzionale all’economia reale si lega strettamente alla richiesta di scongelare quote del proprio reddito aspirate dalla fiscalità: il 55,3% degli italiani vuole il taglio delle tasse, anche a costo di una riduzione dei servizi pubblici.
Il rimbalzo occupazionale selettivo dopo la lunga crisi. Dall’entrata in vigore del Jobs Act, il mercato del lavoro ha visto rimbalzare l’occupazione di 204.000 unità. Siamo ancora lontani dal recuperare la situazione pre-crisi, dato che nel terzo trimestre dell’anno, rispetto allo stesso periodo del 2008, mancano all’appello 551.000 posti di lavoro. La disoccupazione si riduce all’11,9%: una cifra molto lontana però dal 6,7% del 2008. Per quanto riguarda i giovani (15-24 anni) si registra un crollo dell’occupazione, proseguito anche nel 2015, con un recupero ora di appena 9.000 unità rispetto al primo trimestre. Il loro tasso di disoccupazione è praticamente raddoppiato in sei anni, con un picco del 42,7% nel 2014 e poi un calo di 1,4 punti tra il primo e il terzo trimestre di quest’anno.
L’occupazione femminile, invece, ha guadagnato 64.000 posti di lavoro in sei anni e si registra ancora un incremento di 35.000 occupate tra il primo e il terzo trimestre del 2015. E se nel 2008 i lavoratori più anziani (55-64 anni) erano poco meno di 2,5 milioni, nel 2014 erano diventati 3,5 milioni e continuano a crescere, con un aumento di 91.000 unità nei primi sei mesi dell’anno. Si consolida la presenza nel mercato del lavoro della componente straniera, che ha superato i 2,3 milioni di occupati, con un incremento di 604.000 unità tra il 2008 e il 2014 e di 77.000 nella prima metà dell’anno. Intanto, permangono criticità che rischiano di cronicizzarsi: i giovani che non studiano e non lavorano (i Neet) sono 2,2 milioni, la sottoccupazione riguarda 783.000 addetti, il part time involontario 2,7 milioni di occupati e la Cassa integrazione ha superato nel 2014 la soglia del miliardo di ore concesse, corrispondenti a circa 250.000 occupati equivalenti. E poi ci sono i workaholic loro malgrado: negli ultimi dodici mesi, 11,3 milioni di italiani hanno lavorato regolarmente o di tanto in tanto durante il weekend, 10,3 milioni oltre l’orario formale senza il pagamento degli straordinari, 7,3 milioni a distanza (da casa o in viaggio), 4,1 milioni hanno lavorato di notte, 4 milioni hanno fatto piccoli lavoretti saltuari.
La piattaforma di ripartenza (e trasformazione) dell’Italia: la geografia dei vincenti ridisegnata dal driver dell’ibridazione. Oggi il primo fattore di riposizionamento dei vincenti è il rapporto con la globalità, profondamente modificato dall’abbattimento delle barriere e dei costi di ingresso grazie al digitale. Chi negli anni delle ristrettezze interne ha vinto ogni pulsione protezionista o di pura trincea, ed è andato verso l’esterno assumendosene i rischi e accettando le sfide, adesso incassa il dividendo di tale scelta. Le esportazioni valgono il 29,6% del Pil. Nonostante il contraccolpo causato dalla crisi dei mercati emergenti, hanno continuato a crescere anche negli anni della crisi e nei primi nove mesi dell’anno segnano un +4,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Vincono i produttori di macchine e apparecchiature, con un surplus di 50,2 miliardi di euro nel 2014, e l’Italia oggi è leader nella produzione di macchinari per produrre altri macchinari. Vince l’agroalimentare, che nell’anno dell’Expo fa il boom di esportazioni (+6,2% nei primi otto mesi del 2015) e riconquista la leadership nel mercato mondiale del vino (con oltre 3 miliardi di export). Vincono i comparti consolidati dell’abbigliamento (+1,4% di export nei primi otto mesi dell’anno), della pelletteria (+4,5%), dei mobili (+6,3%), dei gioielli (+11,8%). E vince un settore trasversale per vocazione come quello creativo-culturale, con 43 miliardi di export. Ma a contare veramente non è un pur importante segno positivo negli indicatori congiunturali. Il vero «X factor» sta in una rinnovata ibridazione di settori e competenze tradizionali che produce un nuovo stile italiano: il risultato di questa ibridazione è una trasformazione dei settori tradizionali. Il design e la moda ne sono l’archetipo (ibridazione di qualità, saper fare artigiano, estetica, brand). Oggi il successo della gastronomia italiana ha agganciato lo sviluppo della filiera agroalimentare, legandola anche al turismo, alle bellezze paesaggistiche e culturali del Paese, grazie anche al volano delle piattaforme digitali.
L’onda montante del turismo polimorfo. Il settore turistico ha registrato un costante incremento dei flussi anche negli anni della crisi. Dal 2000 il numero complessivo di arrivi nel territorio italiano è aumentato del 33,3%, raggiungendo nel 2014 la cifra record di 106,7 milioni, con 378,2 milioni di presenze. L’incremento maggiore riguarda gli arrivi di stranieri: sono stati 51,7 milioni nell’ultimo anno (+47,2% tra il 2000 e il 2014) e pesano ormai per il 48,4% del totale. Ma anche i turisti italiani sono aumentati del 22,4% nel periodo: sono stati 55 milioni nell’ultimo anno. E i dati più recenti disponibili, riferiti al primo semestre del 2015, confermano il trend di crescita: +1,8% di arrivi complessivi e +3,2% di turisti stranieri rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente. La platea degli estimatori del nostro Paese è sempre più globalizzata. Dal 2010 a oggi sono i cinesi (+137,9%), i coreani (+70,8%), i russi (+56,6%) e i brasiliani (+31,4%) gli stranieri per i quali si registrano le più forti variazioni positive. E il turismo diventa diffusivo: gli arrivi nelle località marine (+17,2% nel triennio 2010-2013) e montane (+15,2%) ora crescono più di quelli nelle città di interesse storico e artistico (+13,2%), tradizionalmente mete prioritarie per gli stranieri soggiornanti in Italia. Dal lato dell’offerta, nel periodo 2010-2014 gli arrivi nelle strutture extralberghiere (+23,8%) sono aumentati molto più di quelli nelle strutture alberghiere (+16,5%): +42,6% nei bed & breakfast, +33,2% negli agriturismi, +27,9% negli alloggi in affitto. E poi c’è il caso Roma: il Colosseo nel 2014 ha avuto 6,2 milioni di visitatori (erano 2,5 milioni nel 2000: +148%), i Musei Vaticani 5,8 milioni di visitatori (3 milioni nel 2000: +93%), Castel Sant’Angelo 1 milione di visitatori (590.000 nel 2000: +69%).
La ritrovata fiducia che premia i beni durevoli: auto ed elettrodomestici. Il ciclo declinante del consumo di beni durevoli parte dal 2007 e si protrae fino al 2013, poi registra una ripartenza: dalla seconda metà del 2014 e per tutto il 2015 sono proprio i beni durevoli a trainare la ripresa dei consumi familiari. Le analisi previsionali presentano uno scenario incoraggiante. Tra coloro che in famiglia assumono la responsabilità degli acquisti principali, la quota di chi dichiara di avere fiducia nel futuro (il 39,8%) supera quella di chi non vede segnali positivi (il 22,4%), mentre la parte restante (il 37,8%) è ancora incerta. Questa ritrovata fiducia si riflette sulle intenzioni di acquisto: il 5,7% delle famiglie (più del doppio rispetto all’anno scorso) ha intenzione di comprare un’auto nuova (se andrà così, si avranno nel 2016 circa 1,5 milioni di immatricolazioni, come non si vedeva dal 2008), il 5,7% nuovi mobili per la casa, l’11,2% nuovi elettrodomestici (quasi 3 milioni di famiglie), il 9,2% ha intenzione di ristrutturare l’immobile. Sono potenzialità nei consumi da scongelare.
Verso nuovi stili di consumo digitali e relazionali. Il Censis stima in 15 milioni gli italiani che fanno acquisti su internet, 2,7 milioni hanno comprato prodotti alimentari in rete negli ultimi dodici mesi e l’home banking è praticato dal 46,2% degli utenti del web. E il successo della sharing economy rende ancora più evidente i nuovi stili di consumo. Nell’ultimo anno il 4% degli italiani (circa 2 milioni) ha utilizzato il car sharing, ma tra i giovani la percentuale sale all’8,4%.
Il cambio di look dei piani terra delle città. I cambiamenti più diffusi nelle città in questi ultimi anni vanno ricercati nei «piani terra». Tra il 2009 e il 2015 si osserva una riduzione dell’11,2% dei negozi di ferramenta, dell’11% dei negozi di abbigliamento, del 10,8% delle librerie, del 10,5% delle macellerie, del 9,9% dei negozi di calzature, dell’8,7% dei negozi di articoli sportivi. Crescono invece del 37% i take away, del 15,5% i ristoranti, del 10% i bar, dell’8,2% le gelaterie e pasticcerie. Ciò dipende da tre ragioni: il ridotto capitale necessario all’avvio di queste attività, la pervasività del cibo nella nostra vita quotidiana, l’iniziativa di molti stranieri attivi nel commercio.
L’immigrazione apocalittica e i processi minuti di integrazione. Gli stranieri in Italia inseguono una traiettoria di crescita verso la condizione di ceto medio, differenziandosi così dalle situazioni di concentrazione etnica e disagio sociale che caratterizzano le banlieue parigine o le innercities londinesi, dove l’islam radicale diventa il veicolo del rancore delle seconde e terze generazioni per una promessa tradita di ascesa sociale. Tra il 2008 e il 2014 in Italia i titolari d’impresa stranieri sono aumentati del 31,5% (soprattutto nel commercio, che pesa per circa il 40% di tutte le imprese straniere, e nelle costruzioni, per il 26%), mentre le aziende guidate da italiani diminuivano del 10,6%. A fine settembre i migranti sbarcati in Italia sono stati 132.071, il 10% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Nei primi nove mesi del 2015 le 42.801 domande di asilo hanno portato nel 23,6% dei casi all’attribuzione della protezione umanitaria, nel 15,8% di quella sussidiaria e nel 5,5% al riconoscimento dello status di rifugiato.
L’altra metà, al netto dei possibili ricorsi, andrà incontro a un diniego e all’obbligo, non sempre rispettato, di lasciare il nostro Paese. Erano 70.652 gli stranieri irregolari rintracciati in Italia nel 2008, ma la cifra si è ridotta a 30.906 nel 2014 e sono stati 23.112 nei primi nove mesi del 2015. I rimpatri hanno avuto un picco nel 2011 (25.163), seguito da un netto calo fino a oggi: 10.559 tra gennaio e settembre del 2015. Lo sforzo delle istituzioni per ampliare la rete dell’accoglienza è testimoniato dal numero di posti più che quadruplicati in due anni, dai 22.000 del 2013, prevalentemente concentrati nelle regioni meridionali, ai 98.000 del settembre 2015, distribuiti in tutte le regioni. Ma l’integrazione è un processo che, se certamente va accompagnato dall’alto, si compie nella fisiologia dei comportamenti quotidiani. Il 66% dei giovani italiani di 18-34 anni si dichiara favorevole ad accogliere nel nostro Paese le persone che fuggono da guerre e miseria, mentre tra gli anziani la percentuale è molto più bassa (37,2%).Il 44% degli italiani, inoltre, ritiene che è cittadino italiano chi nasce sul suolo italiano, per il 33% chi vive in Italia per un certo periodo di tempo minimo (non importa dove sia nato), per il 19% chi ha genitori italiani. Lo «ius soli» (il diritto di cittadinanza agli immigrati acquisito automaticamente con la nascita in un territorio) è quindi il criterio privilegiato.
Politica e società ancora fuori sincrono: la politica come performance delle riforme. Quanto più lo Stato non rappresenta un baluardo sicuro per gli individui rispetto alle minacce al loro benessere, tanto più la politica deve farsi performance: deve tagliare con il passato ed essere percepita come veloce, efficace, risolutiva. Ma resta un deficit di fiducia nei cittadini. La globalizzazione continua a dividere gli italiani: conserva un valore positivo solo per il 39%, il 47% ne dà invece un giudizio negativo, il 14% è incerto. Sul libero mercato gli italiani esprimono un consenso largo: il 66% ne dà un giudizio positivo, solo il 25% si mostra critico, il 9% non ha un’opinione in proposito. Ma allo stesso tempo il 39% considera positivamente il protezionismo, contro il 46% che esprime una valutazione negativa e il 15% di dubbiosi. Solo il 23% degli italiani ritiene che l’Ue tenga opportunamente conto dei nostri interessi nazionali (contro una media europea, riferita ai rispettivi interessi nazionali dei diversi Paesi membri, pari al 40%), mentre due terzi (il 67%) sono convinti del contrario. Gli italiani si distinguono per un livello di fiducia accordato alle diverse istituzioni politiche più basso di quello espresso dai concittadini europei: solo quote minime hanno fiducia nei partiti politici (9%), nel Governo (16%), nel Parlamento nazionale (17%), e la percentuale di quanti ripongono fiducia nell’operato delle autorità regionali e locali (il 22%) è meno della metà di quanto si riscontra in media nel resto del continente (47%). Bassi anche i giudizi di fiducia su Commissione europea (39%) e Bce (35%).
Il restringimento del welfare che alimenta gli squilibri sociali. La spesa sanitaria pubblica, cresciuta dal 2007 al 2010 da 101,9 miliardi di euro a 112,8 miliardi, negli ultimi anni ha registrato una inversione di tendenza, con una riduzione tra il 2010 e il 2014, attestandosi nell’ultimo anno a 110,3 miliardi. La spesa sanitaria privata delle famiglie, invece, dal 2007 al 2014 è passata da 29,6 a 32,7 miliardi, raggiungendo il 22,8% della spesa sanitaria totale. La percentuale di famiglie a basso reddito in cui nell’ultimo anno almeno un membro ha dovuto rinunciare o rimandare prestazioni sanitarie è elevata: il 66,7%. E sono 7,7 milioni le persone che si sono indebitate o hanno chiesto un aiuto economico per pagare cure sanitarie. Anche l’andamento del Fondo nazionale per le politiche sociali testimonia il progressivo ridimensionamento dell’impegno pubblico, nonostante il parziale recupero degli ultimi tre anni: 1.565 milioni di euro nel 2007, 43,7 milioni nel 2012, 400 milioni nel 2015 (-74,4% nell’intero periodo). Un andamento simile riguarda anche il Fondo per la non autosufficienza, che nel 2012 non è stato neanche finanziato, per poi salire a soli 400 milioni di euro nell’ultimo anno.
Il ricentraggio decisionale e la deriva politica dei territori. La quota di liste civiche sul totale delle liste che si presentano alle elezioni nei Comuni capoluogo è salita dal 30% al 65% tra il 2007 e il 2015. Tale crescita corrisponde all’esigenza delle élite locali di affermare il proprio diritto all’autogoverno, relativizzando il peso dei partiti politici di appartenenza. Il fenomeno del trasformismo è poi in crescita. Ad oggi il tasso in Parlamento (eletti che cambiano schieramento rispetto agli eletti totali) è del 19,5% (non arrivava al 19% nell’intera Legislatura precedente). I «cambi di casacca» sono in media 5 al mese nei Consigli regionali, 6,1 nel valzer parlamentare: un valore molto più alto di quello della precedente Legislatura (3,0).