professiionistiFinora ogni ente ha gestito il capitale più o meno come ha voluto, con scarsa trasparenza. Alcuni hanno troppi immobili, solo pochi hanno moderne gestioni finanziarie. Ma il decreto è fermo perché crea altri problemi.

 

Assomigliano alle antiche corporazioni. Notai, avvocati, commercialisti, architetti, giornalisti, attuari, ma anche ragionieri, geometri e tante altre professioni – 20 per l’esattezza – si danno un bel po’ di arie ed esercitano ancora un certo fascino sociale. Ma oggi anche queste figure non sono più quelle di una volta: hanno perso smalto e potere. Ma hanno perso soprattutto guadagni. E, accanto alla discesa dei redditi – mediamente del 24 per cento in termini reali dal 2005 al 2013 (dati Adepp) – questi due milioni di professionisti sono adesso sotto attacco anche per le pensioni. Negli ambienti tecnici, si vocifera che almeno tre casse abbiano il respiro corto e che possano finire – entro 7-10 anni – nel calderone dell’Inps, come già accaduto – triste esempio – ai dirigenti industriali qualche anno fa. E altre con il fiato meno corto potrebbero estinguersi al massimo entro 15-20 anni.

 

Per questo l’ex ministro Elsa Fomero le aveva costrette nel 2011 a fare uno stress test a 50 anni per vedere la loro capacità di resistere nel tempo alle congiunture sfavorevoli. E anche per questo motivo in questi ultimi mesi i ministeri dell’Economia e del Lavoro hanno preparato uno schema di decreto che disciplina i loro investimenti. Ma questo decreto sembra nato sotto una cattiva stella, aggiungendo confusione a confusione.

 

Senza, dicono gli esperti, una chiara cognizione di causa di cosa sia un investimento finanziario. Si tratta di un curioso destino. Le casse di previdenza sono indubbiamente private, quindi con quale autorità lo Stato vuole loro imporre come investire i quasi 60 miliardi di patrimonio che hanno faticosamente accumulato nel corso del tempo? La motivazione starebbe nell’articolo 38 della Costituzione, che prevede che “tutti i cittadini hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia”.

 

Tradotto in parole povere: se la cassa non funziona più e va in default, lo stato interviene e paga lo stesso. Prima di questo decreto ministeriale, già passato al vaglio del Consiglio di Stato che secondo i tecnici ne ha accentuato le incongruenze, ogni cassa si è regolata come ha voluto. E se alcune fra di esse si sono dotate di una struttura manageriale e di una procedura per verificare la bontà degli investimenti – come ha fano ad esempio Inarcassa, l’istituto previdenziale degli architetti – altre hanno invece gestito in modo casereccio il proprio patrimonio, spesso investendo perlopiù in immobili: un investimento che fino al 2007 non ha mai tradito ma che poi si è rivelato una trappola mortale (crollo dei valori, difficoltà a vendere, e ad affinare).

 

Per sapere se si investe bene o male il proprio patrimonio, sia esso quello di un modesto padre di famiglia che di un ente previdenziale non c’è che un mezzo: misurare il valore dei propri asset e quindi il loro rendimento anno per anno. Ecco, inutilmente si cercherebbe, spulciando fra le centinaia di pagine dei bilanci, una notizia del genere. Ha provato a fare un esercizio, ma per sommi capi, l’Adepp, l’associazione delle casse di previdenza dei professionisti. Ebbe ne è venuto fuori un rendimento medio negativo del -4,47 per cento nel 2011, del 7,06 nel 2012 e del 4,17 nel 2013. Tutto qui. Nessuno, però conosce i rendimenti ente per ente. salvo per le pochissime più virtuose che mostrano questo dato.