La Cassazione, con una sentenza a Sezioni Unite, ha stabilito che il conducente di veicoli industriali non si può definire un trasfertista. Una decisione che dei risvolti sui trattamenti fiscali della retribuzioni.
La decisione riguarda soprattutto gli autisti che operano sul lungo raggio e che quindi lavorano lontano dalla sede dell’azienda di cui sono dipendenti.
L’attuale legislazione definisce come trasferta un’assenza dall’abituale posto di lavoro superiore a sei ore, purché avvenga anche fuori dal territorio dove ha sede la postazione di lavoro. In questo caso, le somme erogate in regime di vantaggio subiscono un’imposizione fiscale se sono superiori a 46,48 euro al giorno, che diventano 77,47 euro per le trasferte all’estero.
La Legge 225/2016 impone tre criteri per inquadrare le retribuzioni erogate ai lavoratori definiti trasfertisti piuttosto che quelle di chi beneficia dell’indennità di trasferta (più favorevole): la mancata indicazione nel contratto e/o lettera di assunzione della sede di lavoro; lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente; la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi variabili e diversi, di una indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuiti senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.
Nell’autotrasporto, non sussiste la terza condizione, perché il lavoratore otterrà la corresponsione di una indennità variabile, distinta in base al numero di ore passate in trasferta e comunque risulta collegata in modo assoluto alla concreta ed effettiva effettuazione della trasferta.