cassazione, ricorsoLa Corte di cassazione, con ordinanza n. 843 del 19 gennaio 2016, accogliendo il ricorso erariale, ha stabilito che è legittimo l’accertamento induttivo basato su una sola presunzione, purché grave e precisa, come lo stipendio del dipendente troppo alto rispetto a quanto dichiarato dall’azienda (nella specie, un commerciante pagava eccessivamente l’unico dipendente rispetto al reddito d’impresa e aveva un consumo di energia molto alto riguardo al volume d’affari).

 

Dati del processo

 

Nella fattispecie trattata, le Commissioni di merito avevano accolto e confermato in appello il ricorso di una contribuente, titolare di un salone da parrucchiera, avverso un avviso di accertamento, ex articoli 39, Dpr 600/1973, e 54, Dpr 633/1972, con il quale era stato rettificato, ai fini Irpef, Irap e Iva, il reddito d’impresa dichiarato.

 

Il giudice regionale ha rilevato che, nella specie, non sussistevano, nei presupposti impositivi, presunzioni gravi, precise e concordanti per poter considerare inattendibili le dichiarazioni della contribuente, necessitando la presenza di gravi irregolarità formali nelle scritture contabili o di inesattezze, non evidenziate nell’avviso di accertamento. Sosteneva, inoltre, che l’unica presunzione utilizzata dall’ufficio era rappresentata dai consumi di energia elettrica sulla base di quelli medi delle apparecchiature utilizzate e che i ricavi dichiarati risultavano superiori a quelli minimi previsti dallo studio di settore.

 

Nel prosieguo in sede di legittimità, l’ente impositore lamenta che la Commissione del riesame abbia ritenuto surrettiziamente necessaria, ai fini dell’accertamento analitico-induttivo, la sussistenza di gravi irregolarità formali nelle scritture contabili o di inesattezze, e che abbia altresì sostenuto la necessità, per procedere in tal senso, di una pluralità di presunzioni.

 

La decisione

 

Ma la doppia conforme di merito non è servita alla difesa del contribuente, in quanto la sezione tributaria ha capovolto l’esito dei precedenti giudizi, accogliendo il ricorso erariale. Ciò in quanto la sentenza impugnata, ritenendo necessaria ai fini della legittimità dell’atto impositivo la sussistenza di gravi irregolarità e la presenza di più elementi presuntivi, si è discostata dai principi di diritto forgiati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, in base ai quali, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973 (cfr inter alia, Cassazione, 22695/2008, 6929/2012, 7871/2012 e 23044/2015).

 

Ove, infatti, l’ufficio motivi sufficientemente l’accertamento eseguito ai sensi di tale disposizione con la rettifica del reddito, sia specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ai ricavi sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, il provvedimento è di per sé legittimo, non essendo necessario che sia stato preceduto dal riscontro analitico della congruenza e della verosimiglianza dei singoli cespiti dichiarati dal contribuente (cfrCassazione 26919/2006 e 24532/2007).

 

In tal caso, per reggere al vaglio di legittimità, l’accertamento deve essere assistito dalle presunzioni previste dall’articolo 2729 del codice civile (gravi, precise e concordanti), desunte dalle regole di comune esperienza secondo l’id quod plerumque accidit, oltreché da elementi fondati offerti dalle singole fattispecie (cfr Cassazione, 2876/2009).

 

Anche rispetto all’altro profilo censorio, il “diritto vivente” ha sostenuto, in tema di prova civile conseguente ad accertamento tributario, che gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave (cfr Cassazione 17574/2009 e 656/2014).

 

Smentendo, quindi, le considerazioni del giudice di merito, la Corte suprema conclude affermando che, nel caso trattato, l’accertamento analitico-induttivo non appare sorretto da un’unica presunzione, ossia il consumo di energia elettrica, atteso che l’ufficio ha rappresentato anche l’antieconomicità sulla base del raffronto tra i dati dal 2000 al 2004 e del raffronto con il reddito del lavoratore dipendente, di gran lunga superiore a quello dichiarato dall’impresa.

 

Ed è noto che, in mancanza di spiegazioni documentate, l’irragionevolezza economica del comportamento del contribuente, che affermi per più anni di essere finito in perdita o di avere sostenuto costi sproporzionati ai ricavi, rappresenta un fatto sintomatico di possibili violazioni all’obbligo della dichiarazione, non essendo conforme a logica ed esperienza impostare o proseguire l’attività secondo criteri o risultati poco vantaggiosi o addirittura dannosi.

 

Tale circostanza autorizza a presumere che l’interessato abbia, in realtà, incassato più di quanto indicato nella denuncia dei redditi (cfr Cassazione, 10802/2002, 21536/2007, 951/2009, 11988/2011 e 13734/2015).