La presunzione di vendita delle merci non rinvenute comporta l’onere di provare il contrario a carico del contribuente e i mezzi probatori sono espressamente previsti dalla legge.
La Corte di cassazione, con la sentenza 6517/2015, torna a occuparsi dei presupposti applicativi della presunzione di cessione dei beni non rinvenuti (articolo 53, Dpr 633/1972) e dei documenti utilizzabili ai fini della prova contraria, precisando che l’inventario fallimentare redatto dal curatore due anni dopo la registrazione contabile, sulla base di una nota di credito non esibita ai verificatori, non è idoneo a fornire una dimostrazione di segno contrario in ordine alla diversa destinazione dei beni non reperiti. Non rientra, infatti, tra le prove documentali utilizzabili.
La vicenda processuale trae origine da un avviso di accertamento per l’anno di imposta 2002, con il quale l’ufficio, sulla base delle risultanze del pvc della Guardia di finanza, recuperava a tassazione le maggiori imposte sui redditi dovute in conseguenza della presunta cessione a terzi delle merci non reperite in magazzino, sebbene registrate nel libro giornale della società alla data del 13 gennaio 2003.
L’atto impositivo, notificato al Fallimento della contribuente, veniva impugnato dinanzi alla Ctp di Roma, che accoglieva il ricorso.
La Ctr respingeva l’appello dell’ufficio, evidenziando che le merci non rinvenute dalla Guardia di finanza erano incluse nell’inventario fallimentare redatto dal curatore due anni dopo, ossia il 30 aprile 2005, sulla base di una nota di credito non esibita ai verificatori.
L’ufficio ricorreva in Cassazione lamentando (ex articolo 360, comma 1, numeri 3 e 5, cpc) che la Ctr aveva errato nel ritenere che le merci non rinvenute in magazzino, sebbene annotate nel libro giornale, coincidessero con quelle indicate nell’inventario fallimentare redatto successivamente dal curatore. Il giudice di appello avrebbe dovuto, invece, tener conto esclusivamente delle risultanze del processo verbale di constatazione, in quanto atto facente fede fino a querela di falso ai sensi dell’articolo 2700 cc, e non dedurre l’esistenza delle merci da un documento non rientrante tra le prove utilizzabili (ex articolo 53, Dpr 633/1972), a sua volta basato su una nota di credito non esibita in sede di verifica e, pertanto, non utilizzabile in sede contenziosa (ex articolo 32, comma 4, Dpr 600/1973).
La pronuncia
I giudici di legittimità hanno accolto le doglianze dell’ufficio, affermando che la natura di presunzione legale relativa, ascrivibile alla presunzione di cessione dei beni non rinvenuti, comporta l’ammissibilità della prova contraria da parte del contribuente “ma tale prova deve essere fornita solo entro i limiti di oggetto e di mezzi probatori specificamente indicati dall’art. 53 cit., e da quest’ultimo previsti ad evidenti fini antielusivi (Cass. 15087/2000; 16483/2006; 15312/2008)”.
L’articolo 53, comma 1, Dpr 633/1972 dispone che “si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti. Tra tali luoghi rientrano anche le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze, stabilimenti, negozi, depositi ed i mezzi di trasporto nella disponibilità dell’impresa”.
In particolare, la presunzione di cessione scaturisce dal raffronto tra l’entità dei beni acquistati, importati o prodotti (al netto dei beni utilizzati per la produzione, perduti o distrutti, nonché dei beni consegnati a terzi in lavorazione, deposito o comodato, eccetera) e quella dei beni effettivamente giacenti nei luoghi ove il contribuente svolge le proprie operazioni, comprese le dipendenze, eccetera. La differenza tra le due entità evidenzia la quantità dei beni che, in via presuntiva, sono da considerare ceduti, con la conseguenza che, ove le effettive consistenze finali risultino inferiori a quelle contabilizzate, i beni costituenti la differenza si considerano ceduti in evasione del tributo.
Tale presunzione legale, trattandosi di presunzione iuris tantum, consente all’ufficio di dare per avvenuta la cessione dei beni fino alla dimostrazione del contrario.
L’elencazione dei mezzi di prova di cui può avvalersi il contribuente, per superare la presunzione di cessione, ha carattere tassativo. Pertanto, non sono ammessi elementi giustificativi diversi da quelli espressamente contemplati dalla norma (cfr articolo 2, comma 1, del Dpr 441/1997).
Benché la presunzione di cessione sia stata dettata in materia di Iva, non può non avere rilievo quale fondamento dell’esistenza di fatti rilevanti anche in ordine all’accertamento delle imposte sul reddito “in virtù del principio di unitarietà dell’ordinamento, ed in applicazione dell’art. 12 preleggi, comma 2” (cfr Cassazione 16483/2006).
Passando al caso concreto, la Corte di cassazione ha rilevato che l’inventario fallimentare del curatore non rientra tra i documenti specifici indicati dall’articolo 53 e, conseguentemente, non è idoneo a fornire gli elementi di prova di segno contrario “in ordine ad una diversa destinazione dei beni non reperiti dai verbalizzanti”. Ciò a maggior ragione a fronte di un processo verbale di constatazione, dal quale si desume l’assenza in magazzino dei beni annotati nel libro giornale, che non può essere messo in discussione da un inventario redatto a distanza di due anni dalla registrazione contabile. Tale atto, infatti, sotto il profilo probatorio, è dotato di fede privilegiata ai sensi dell’articolo 2700 cc quanto ai fatti in esso descritti, per contestare i quali è, pertanto, necessaria la proposizione della querela di falso (cfr Cassazione 2949/2006). Peraltro, l’inventario del curatore si basa su una nota di credito non esibita in occasione della verifica. Ragion per cui la stessa non può essere utilizzata in sede contenziosa (articolo 32, comma 4, Dpr 600/1973).
Sulla base di dette considerazioni, i giudici di legittimità hanno cassato con rinvio la sentenza impugnata, nella parte in cui non ha applicato la presunzione di cessione prevista dall’articolo 53 del Dpr 633/1972.
La sentenza in esame si allinea all’orientamento già in precedenza espresso dalla Corte suprema, la quale, in una fattispecie analoga, aveva già avuto modo di precisare che la presunzione in questione “non può essere superata tramite “bolle”, di accompagnamento o consegna, o fatture, trattandosi appunto di documenti non indicati nel richiamato art. 53 del D.P.R. n. 633 del 1972” (cfrCassazione 7121/2003).