Le dimissioni del lavoratore o il suo licenziamento per giusta causa legittimano la revoca del credito d’imposta previsto a favore di chi impiega nuovi dipendenti.
L’agevolazione fiscale prevista dall’articolo 4 della legge n. 449 del 1997 in termini di attribuzione a favore delle piccole e medie imprese (individuate mediante rinvio al decreto del ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato 18 settembre 1997), che dall’1 ottobre 1997 al 31 dicembre 2000 avessero assunto nuovi dipendenti, di un credito di imposta fino agli importi ivi indicati, detta alcune condizioni di fruibilità, la prima delle quali è nel primo comma indicata nella conformità dell’aiuto statale alla disciplina comunitaria.
La seconda condizione – di natura stavolta spaziale – è prevista dal secondo comma, per il quale le imprese dovevano operare nelle aree comunque situate nei territori di cui all’obiettivo 1 del regolamento Cee n. 2052 del 1988 e in quelli per i quali la Commissione delle Comunità europee aveva riconosciuto la necessità di intervento con la decisione 11 aprile 1997, n. 836, confermata con decisione n. SG (97) D/4949 del 30 giugno 1997.
Infine, ulteriori condizioni vennero statuite nel quinto comma, tra le quali l’impresa, anche di nuova costituzione, doveva realizzare un incremento del numero di dipendenti a tempo pieno e indeterminato (lettera a) e – ai fini che in questa sede interessano – “il livello di occupazione raggiunto a seguito delle nuove assunzioni non subisca riduzioni nel corso del periodo agevolato”, ex lettera c.
L’ultimo requisito era stato interpretato dalla circolare del ministero delle Finanze n. 219/E del 1998, la quale aveva illustrato, da un canto, la condizione che il livello di occupazione raggiunto a seguito delle nuove assunzioni non subisca riduzioni nel corso del periodo agevolato sottintende il mantenimento, nel periodo triennale di agevolazione, del livello occupazionale composto sia dall’incremento occupazionale che ha dato luogo al credito d’imposta sia di quello esistente alla data del 30 settembre 1997.
D’altro canto, la suddetta circolare aveva precisato che la riduzione del livello occupazionale a seguito di atti non dipendenti dalla volontà del datore di lavoro, quali quelli individuati a mero titolo esemplificativo nel recesso da parte del lavoratore ovvero nel pensionamento su istanza del medesimo, non costituivano causa di revoca del credito d’imposta, se riferiti al personale esistente alla data del 30 settembre 1997.
Nessun dubbio, quindi, che soltanto la cessazione del rapporto di lavoro dei nuovi assunti avrebbe potuto legittimare il disconoscimento del beneficio fiscale, come confermato dal successivo passo della citata circolare ministeriale, per la quale, “di contro, qualora i predetti atti riguardino lavoratori assunti nel periodo 1° ottobre 1997 – 31 dicembre 2000, gli stessi comportano una riduzione del livello occupazionale raggiunto e, conseguentemente, una corrispondente revoca del credito, nel periodo d’imposta in cui detta riduzione si è verificata, salvo il ripristino da parte dell’impresa del precedente livello occupazionale”.
Nella controversia oggetto dell’intervento della Corte regolatrice del diritto in rassegna (sentenza 30 maggio 2014, n. 12160), si era verificato che un lavoratore era stato licenziato per il giustificato motivo individuato nella (evidentemente invalidante) sua malattia e un altro si era dimesso volontariamente e, seppure in entrambi i gradi di merito, era stata confermata l’agevolazione fiscale, i giudici di legittimità hanno optato per la soluzione interpretativa di natura meramente oggettiva della condizione legale prevista nella cennata lettera c dell’articolo 4.
In tal modo, vengono imputati al contribuente effetti da lui non determinati, né, forse, altrimenti inevitabili (si pensi alle dimissioni di un dipendente l’ultimo giorno utile per mantenere il livello occupazione di nuova entità), in base – appunto – al tenore letterale e “all’indubbia ratio della norma, costituita dall’incentivazione alla stabile occupazione in particolari aree del territorio”.
Pertanto, la giurisprudenza del Supremo collegio – già dalla sentenza, citata da questa in commento, 27 febbraio 2013, n. 4933, la cui massima viene recepita acriticamente dalla pronuncia della Suprema corte che si annota – aveva dedotto l’effetto dell’indifferenza, ai fini della decadenza dal credito di imposta, della circostanza che i rapporti di lavoro così instaurati fossero poi cessati per fatti non imputabili alla volontà del datore di lavoro.
Da parte nostra, si può soltanto aggiungere che, seppure corretta sia l’affermazione del Supremo collegio sull’esclusione delle circolari amministrative dalle fonti del diritto – in quanto atto unilaterale della PA volto a indirizzare e disciplinare in modo uniforme l’attività dei propri organi – non dovrebbero essere considerate legittimamente irrogate le sanzioni tributarie amministrative e gli interessi moratori al contribuente “qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima”.
In questi termini dispone ancora vigente una legge dello Stato italiano, peraltro di portata generale, qual è lo Statuto dei diritti del contribuente, approvato con legge n. 212 del 2000, con la disciplina incardinata nell’articolo 10, rubricata “Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente”, anche nel testo risultante dopo le modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, del Dl 17 giugno 2005, n. 106, sempreché i difensori in primo grado si ricordino di sollevare tale eccezione.
FONTE: Fisco Oggi – Rivista Telematica dell’Agenzia delle Entrate