Continua a cresce il trend delle aziende italiane all’estero: non solo multinazionali ma anche micro e medie imprese che scelgono di delocalizzare la produzione e aprirsi a nuovi mercati.
Questo potrebbe essere una mossa avvincente per alcune mentre per altre potrebbe essere solamente una valutazione, ovviamente una giusta valutazione di tutto ciò la si potrà avere nelle seguenti righe che daranno una visione ben chiara dell’argomento trattato.
Dunque vedremo alcune statistiche principale sul perché le aziende italiane preferiscano andare in paesi stranieri.
Aziende italiane all’estero: dati e percentuali delle delocalizzazioni
Da uno studio condotto dall’Ufficio studi della CGIA su Banca dati Reprint del Politecnico di Milano e dell’Ice, è emerso che tra il 2009 e il 2015 il numero delle aziende italiane all’estero è aumentato del 12,7%, passando da 31.672 a 35.684 e il trend non sembra arrestarsi; nonostante le contromisure punitive prese dal governo per chi pensa alla delocalizzazione.
Si è riscontrato che nel periodo preso in esame il numero di occupati all’estero alle dipendenze di imprese italiane è diminuito del 2,9% mentre il fatturato è aumentato dell’8,3 % arrivando a toccare 520,8 miliardi di euro nel 2015.
Delle 35.684 aziende italiane all’estero conteggiate nel 2015:
- il 40,5% sono afferenti al settore commerciale
- il 23,1% sono aziende manifatturiere.
Le regioni che più investono in mercati internazionali e spostano la propria attività produttiva oltre i confini sono: la Lombardia (11.637 casi), il Veneto (5.070), l’Emilia-Romagna (4.989) e il Piemonte (3.244), ed anche questo non è un caso.
Se analizziamo attentamente questi numeri vediamo che essi riguardano un’alta percentuale.
Al contrario della comune credenza secondo la quale gli imprenditori italiani emigrano prevalentemente verso i paesi dell’Est Europa per abbattere i costi di produzione e pagare meno tasse, i principali paesi di destinazione delle aziende nostrane sono:
- Stati Uniti, con più di 3300 casi.
- Francia e Spagna, entrambe con 2551 casi.
- Germania con 2228 aziende emigrate.
- Regno Unito con 1991 aziende emigrate.
- Cina, con 1698 aziende emigrate.
Tra i paesi dell’Est Europa compare solo la Romania ai primi posti con 2353 casi di delocalizzazione registrati.
Tuttavia, negli ultimi anni, si sono registrati anche casi di aziende che hanno scelto di fare ritorno in patria. Tre queste si annoverano Benetton, Bottega Veneta, Fitwell, Geox, Safilo, Piquadro, Wayel, Beghelli, Giesse e Argotractors.
Parliamo di aziende che hanno una storia importante e un’esperienza come pochi, oramai colossi dei vari settori in cui operano.
A questo infatti, c’è chi immagina l’estero come un perfetto giardino dell’Eden, e qui ci si sbaglia di grosso, infatti ci sono alcune difficoltà:
- Il 61% delle aziende italiane all’estero hanno dichiarato che la burocrazia e normative fiscali sono i principali problemi che si incontrano nell’operare all’estero.
- Il 47% invece sostiene di aver avuto difficoltà nel reperire personale adeguato.
In ultimo è forse quello più importante e che non si deve sottovalutare e il caso della corruzione che rappresenta un problema per il 19% delle imprese.
Aziende italiane all’estero: le ragioni della delocalizzazione
La crisi economica che, a partire dal 2009 ha investito l’Italia, è stato uno dei fattori determinanti che ha spinto molte aziende a delocalizzare. Inoltre è evidente che Paesi con una tassazione agevolata per le imprese siano mete molto attraenti per le aziende.
Infatti, secondo dati del 2016, l’Italia si conferma tra i Paesi Ocse con il maggior carico fiscale con un livello di carico fiscale del 42,9% contro la media del 34,3% nei 35 Paesi Ocse Ad appesantire la struttura fiscale in Italia, secondo l’Ocse, contribuiscono l’alto livello delle tasse sul reddito (26%), i contributi sociali (30,1%), le tasse sulle proprietà immobiliari(6,5%,). Ma non è solo l’esigenza di una minor pressione fiscale la ragione alla base della delocalizzazione. Infatti ci sono varie cose da valutare.
Una ricerca commissionata dalla banca Hsbc e realizzata dai ricercatori dell’Università di Padova ha dimostrato che il 58% delle attuali aziende italiane all’estero ha scelto di delocalizzare per cercare nuove opportunità di mercato in quanto la diminuzione del potere d’acquisto in Italia ha ridotto drasticamente la domanda di beni e servizi.
Il 39%, invece, si è spostato in paesi dove era maggiore la presenza di fornitori e potenziali clienti interessati al proprio settore il 20% ha dichiarato di puntare all’internazionalizzazione per la possibilità di avvalersi di manodopera locale qualificata non sempre reperibile in Italia in determinati settori in cui è richiesta un’alta specializzazione.
Un falso mito da sfatare è che le aziende italiane all’estero si svendano: i dagli studi condotti è emerso che oltre il 40% delle medie e grandi imprese italiane ha fatto un’acquisizione e, nell’81% dei casi, è avvenuta all’estero. Solo il 13% delle aziende italiane all’estero è stato comprato e, inoltre, negli ultimi 3 anni, è stata registrata un’elevata percentuale di imprese nostrane che hanno innovato sia nel prodotto finale sia nei metodi di produzione
Sussiste, tuttavia, una differenza notevole nelle “dimensioni”: le aziende straniere acquisiscono gruppi più grandi rispetto alle nostre aziende espatriate. Come possiamo ben notare da questi dati i fatti parlano chiaro, ed anche i numeri a riguardo non sono assolutamente da sottovalure, in questo modo abbiamo capito la differenza che si presenta tra l’Italia e gli altri paesi del mondo.
Come le aziende italiane all’estero possono registrare il proprio marchio per tutelarsi
Un marchio costituisce un dato di valore in quanto ad esso può essere anche attribuito il successo di un prodotto, è fatto si che nell’interesse della stessa azienda di provvedere a registrare il proprio marchio nei paesi in cui intende esportare o concedere il suo marchio. Tra questi rientrano dei rischi che sono i seguenti:
Uno dei principali rischi a cui le aziende italiane all’estero vanno incontro è il plagio, la contraffazione del proprio brand.
Ad oggi poche sono le aziende italiane all’estero che puntano sul “made in Italy”: soli 1 azienda su 3 si avvale del marchio. Ad utilizzarlo sono, principalmente, aziende che operano nel settore tessile, della moda e alimentare
L’unico modo per tutelarsi, tuttavia, è registrare un marchio nazionale estero.
Questa procedura può essere svolta secondo 3 differenti modalità:
1) presentare domanda di registrazione presso l’Ufficio competente di ogni singolo Paese d’interesse.
2) presentare una domanda che valga per più Paesi contemporaneamente. Questa opzione, tuttavia, non è sempre praticabile poiché è accettata da un numero limitato di Paesi. All’interno dell’Unione Europea la registrazione del marchio vale per tutti gli Stati membri: è sufficiente presentare un’unica domanda di registrazione presso l’Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI), per avere protezione in tutti i Paesi membri.
3) Attraverso la via internazionale: è possibile registrare il proprio marchio in uno o più Paesi aderenti all’Accordo dell’Aja depositando una sola domanda presso l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI) indicando tutti i paesi per cui viene chiesta la tutela. Saranno poi gli Stati per cui è richiesta la registrazione a decidere se concederla o meno.
Questa strada è accettata negli Stati Uniti e In Russia mentre per il Brasile e gli Emirati Arabi si può procedere solo attraverso la via nazionale, cioè facendo richiesta diretta al singolo Paese.
Quanto costa registrare un marchio all’estero
Qui di seguito vedremo alcune informazioni per la richiesta di registrare un marchio, infatti vedremo che il costo per la registrazione del proprio marchio varia a seconda del Paese e della strada che si segue.
Per essere tutelati in tutti i Paesi UE si spendono circa 1000 euro.
Ben superiore la spesa per le aziende italiane all’estero che chiedono la registrazione per gli Emirati Arabi dove si può arrivare anche a 3000 euro dove viene richiesta la firma autenticata sull’incarico dato al professionista, la legalizzazione della Procura della Repubblica e il visto consolare. A ciò bisogna sommare i costi per le tasse di pubblicazione richieste dagli Emirati e per le tasse di registrazione. Come possiamo ben vedere i costi non sono da sottovalutare specialmente in alcuni paesi.
Ovviamente se si intende registrare il marchio per più di una classe merceologica anche qui ci sono altre spese, ed ovviamente il costo potrebbe diventare più alto.
Ad ogni modo se si vuole fare una ragionamento più esaustivo, si può provvedere a fare la registrazione del marchio in tutto il mondo, ovviamente questa opzione sarebbe da valutare, come sarebbe anche da valutare il tutto in vista di ciò che si vuole fare.