autotutelaLa sentenza n. 348 emessa dalla terza sezione della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, depositata il 25 agosto 2015 ha dato indicazione sulle impugnazioni degli atti annullati in autotutela.

 

Il ricorso proposto contro un atto impositivo annullato in autotutela, a seguito di istanza di reclamo/mediazione, è inammissibile. Il contribuente, inoltre, deve pagare le spese di lite maggiorate del 50%, anche se la notifica dell’esito del reclamo è giunta l’ultimo giorno utile, il novantesimo.

 

La fattispecie

 

Un contribuente, libero professionista, aveva presentato reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis del Dlgs 546/1992 contro un avviso di accertamento Irpef emesso sulla base di indagini finanziarie. In particolare, non avendo fornito idonea giustificazione riguardo alcuni addebiti bancari, l’ufficio provvedeva a considerarli “ricavi in nero” ai sensi dell’articolo 32, comma 1, del Dpr 600/1973. L’amministrazione finanziaria, in sede di mediazione, annullava l’atto impositivo reclamato, sulla scorta della sentenza 228/2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo l’articolo 32 citato con riguardo alle parole “o compensi”, che rendevano applicabile la norma, oltre che agli imprenditori, anche ai liberi professionisti.

 

L’esito della fase amministrativa, ovvero l’accoglimento del reclamo con il conseguente annullamento della ripresa fiscale, veniva comunicato tramite Pec al reclamante l’ultimo giorno utile, ovvero il novantesimo giorno successivo alla presentazione dell’istanza ai sensi dell’articolo 17-bis. Il giorno seguente, il reclamante si rivolgeva alla Commissione tributaria, costituendosi in giudizio con deposito della copia del reclamo che, pertanto, si convertiva in ricorso.

 

La pronuncia della Commissione tributaria provinciale

 

I giudici di merito, chiamati in causa, hanno dichiarato l’inammissibilità del ricorso proposto contro un atto annullato in via amministrativa, condannando altresì il ricorrente al pagamento delle spese di lite, maggiorate a norma di legge.

 

Osservazioni

 

Ai sensi dell’articolo 17-bis citato “per le controversie di valore non superiore a ventimila euro, relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso è tenuto preliminarmente a presentare reclamo secondo le disposizioni seguenti ed è esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’art. 48 … . Decorsi novanta giorni senza che sia stato notificato l’accoglimento del reclamo o senza che sia stata conclusa la mediazione, il reclamo produce gli effetti del ricorso. I termini di cui agli articoli 22 e 23 decorrono dalla predetta data. Ai fini del computo del termine di novanta giorni, si applicano le disposizioni sui termini processuali. Nelle controversie di cui al comma 1 la parte soccombente è condannata a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma pari al 50 per cento delle spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del procedimento disciplinato dal presente articolo”.

 

La legge, dunque, fissa la durata complessiva della fase di reclamo/mediazione in 90 giorni. Il contribuente può, in assenza della definizione della controversia, depositare il ricorso entro 30 giorni a partire dal novantesimo giorno successivo alla notifica dell’istanza all’ufficio. Nel caso in questione, dal fascicolo di causa, i giudici di merito hanno potuto attestare che l’Agenzia competente aveva notificato tramite Pec l’integrale accoglimento del reclamo il novantesimo giorno; nonostante ciò, il contribuente, il giorno seguente, si era costituito in giudizio, depositando il reclamo, che si “trasformava” in ricorso. “A ciò consegue – secondo quanto statuito dalla Ctp di Reggio Emilia – che il ricorso sia stato presentato avverso un atto amministrativo inesistente in quanto già annullato in autotutela dall’Agenzia con l’ulteriore conseguenza che lo stesso vada dichiarato inammissibile come chiesto dalla stessa”.

 

La dichiarazione di inammissibilità ha, altresì, determinato la condanna del contribuente al pagamento delle spese di lite, maggiorate del 50% ai sensi dell’articolo 17-bis, comma 10, Dlgs 546/92. A detta dei giudici di merito, il ricorrente può essere considerato parte soccombente, anche in virtù del principio di soccombenza virtuale, secondo cui “in base al principio di causalità la parte soccombente va individuata in quella che, azionando una pretesa accertata come infondata o resistendo ad una pretesa fondata, abbia dato causa al processo o alla sua protrazione e che debba qualificarsi tale in relazione all’esito finale della controversia: è pertanto legittima la condanna alle spese della parte che si sia costituita e abbia svolto la conseguente attività processuale malgrado la sopravvenuta perdita della legitimatio ad processum, non potendosi la stessa, in base a quest’ultima circostanza e senza che la stessa sia stata rappresentata alla parte avversa, considerare estranea alle spese che, anche con la sua resistenza, abbia causato all’altra parte, ove questa risulti vittoriosa” (cfr Cassazione 7625/2010). Detto principio trova fondatamente applicazione nella fattispecie in esame, in cui la materia del contendere “non esisteva avendo il ricorrente presentato ricorso contro un atto amministrativo inesistente”.