Ecco una riflessione del Dott. Fabio Ascenzi sulle conseguenze dell’autonomia differenziata, della migrazione sanitaria e della potestà legislativa concorrente sulla tenuta del Servizio Sanitario Nazionale e i rischi correlati.
In un mio precedente articolo dedicato a un’analisi delle ingiustizie prodotte dalla cosiddetta migrazione sanitaria, ho riportato alcuni dati che delineano un quadro molto allarmante, emergendo pesanti diseguaglianze tra i sistemi sanitari regionali, e in particolare tra Nord e Sud del nostro Paese.
Quelle preoccupazioni trovano un’ulteriore conferma nel recentissimo Report dell’Osservatorio GIMBE, pubblicato nelle scorse settimane, che esamina gli effetti dell’autonomia differenziata proprio con un focus sulla sanità.
In esso, infatti, viene ribadito come
«A fronte di un SSN ispirato 45 anni fa dai princìpi fondanti di universalità, uguaglianza, equità, oggi ci ritroviamo 21 sistemi sanitari regionali profondamente diseguali, con i residenti nella maggior parte delle Regioni meridionali a cui non sono garantiti nemmeno i LEA. E questa “frattura strutturale” Nord-Sud contribuisce ad alimentare il triste fenomeno della mobilità sanitaria che nel 2021 ha toccato quota € 4.25 miliardi: un fiume di denaro che scorre prevalentemente da Sud verso 3 Regioni settentrionali dove si concentra il 93.3% dei saldi attivi. Proprio le stesse Regioni (Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto) che hanno già sottoscritto i pre-accordi per le maggiori autonomie. Infine, il netto ritardo delle Regioni del Centro-Sud nell’offerta dei servizi sanitari territoriali (es. assistenza domiciliare), nell’adozione e implementazione del fascicolo sanitario elettronico (FSE) e nella disponibilità di strutture (Case di Comunità, Ospedali di Comunità, Centrali Operative Territoriali), condiziona il raggiungimento degli obiettivi della Missione Salute del PNRR».
Ora, a fronte di questa situazione, non può che destare ulteriore preoccupazione l’eventualità che su questo sistema già in difficoltà si possa andare a innestare il riconoscimento dell’autonomia differenziata proprio per le Regioni più ricche del Paese. L’esito sarebbe prevedibilmente disastroso, sia dal punto di vista legislativo che finanziario. Allo Stato, di fatto, rimarrebbe la sola determinazione dei LEA (Livelli Essenziali Assistenza), mentre quelle Regioni potrebbero legiferare persino sui princìpi generali in materia di tutela della salute, mettendo così a serio rischio l’impianto ideale della legge n. 833 del 1978 e il modello universalistico del nostro SSN, dettato dalla Costituzione e dalla legislazione di settore.
Rischi per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN): la questione degli investimenti
Per non parlare poi del tema investimenti e risorse.
Se Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, che quotano oltre il 40% del PIL nazionale, ottenessero la pretesa di trattenere il presunto residuo fiscale sul proprio territorio, o gran parte di esso (si ricordino i 9/10 richiesti dal Veneto nelle pre-intese del 2018!), si produrrebbe una voragine nel finanziamento del fondo perequativo nazionale, con conseguenze devastanti che andrebbero a colpire non solo l’ambito sanitario, ma tutte le azioni di politiche redistributive che lo Stato dovrebbe mettere in atto, come obbligo costituzionale, per colmare quei divari già esistenti nella fruizione dei diritti civili e sociali, e che debbono invece essere garantiti uguali su tutto il territorio nazionale.
Una ulteriore secessione sanitaria delle Regioni più ricche non potrebbe causare altro che la stabilizzazione o il peggioramento dell’attuale situazione, cristallizzando la presenza di una sanità di serie A da una parte e una di serie B dall’altra, motivo principale dei disservizi conosciuti e prima causa proprio del deprecabile fenomeno della mobilità sanitaria.
Tornando al Report dell’Osservatorio GIMBE, nel paragrafo a essa dedicato, si trovano ancora dati illuminanti: «Annualmente vengono effettuate compensazioni finanziarie tra Regioni su 7 flussi finanziari: ricoveri ospedalieri e day hospital (differenziati per pubblico e privato accreditato), medicina generale, specialistica ambulatoriale, farmaceutica, cure termali, somministrazione diretta di farmaci, trasporti con ambulanza ed elisoccorso. Circa il 75% delle compensazioni è relativo a prestazioni di ricovero ospedaliero e day hospital. Dall’analisi della mobilità attiva e passiva emerge la forte capacità attrattiva delle Regioni del Nord, cui corrisponde quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud. Prendendo in considerazione il periodo 2010-2021 ai primi tre posti per saldo attivo si trovano proprio le tre Regioni che hanno richiesto le maggiori autonomie: Lombardia (€ 6.7 miliardi), Emilia-Romagna (€ 4.09 miliardi), Veneto (€ 1.53 miliardi). Al contrario, le 6 Regioni con saldi passivi superiori a € 1 miliardo si trovano tutte al Centro-Sud: Campania (-€ 3.38 miliardi), Calabria (-€ 2.97 miliardi), Lazio (-€ 2.54 miliardi), Sicilia (-€ 2.35 miliardi), Puglia (-€ 2.1 miliardi) e Abruzzo (-€ 1.02 miliardi). Complessivamente in 12 anni, tutte le Regioni del Sud ad eccezione del Molise (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia) hanno accumulato un saldo negativo pari a € 13.2 miliardi.».
Come potrebbe cambiare la situazione con l’autonomia differenziata
Si pensi cosa potrebbe succedere se a questa situazione si andasse a sommare il catalogo delle richieste di maggiore autonomia avanzate nelle pre-intese del 2018 dalle tre Regioni richiedenti la differenziazione: definizione dei percorsi formativi delle professioni sanitarie; definizione di modalità erogative dei farmaci e dei dispositivi e di indirizzi di appropriatezza terapeutica e prescrittiva; istituzione di un fondo regionale integrativo e misure di defiscalizzazione per favorire e incentivare l’adesione volontaria; reclutamento dei dirigenti e dei dipendenti del servizio sanitario regionale; libera professione pure per le attività ordinarie; livello di contrattazione regionale per incentivare le retribuzioni dei dipendenti e dei dirigenti; accesso dei medici non specialisti presso strutture ospedaliere.
Immaginiamo questa lista applicata, ad esempio, durante l’emergenza Covid-19, senza più lo Stato a fare da garante, ma con le Regioni in competizione l’una contro l’altra per il reclutamento del personale, per l’accaparramento dei dispositivi medici, per la gestione della campagna di vaccinazione. Sarebbe stato un ulteriore disastro nel disastro! Ma al di là della situazione particolare, anche in condizioni di normalità sarebbe un vero e proprio cataclisma per il SSN universalistico sin qui conosciuto. La spesa sanitaria pesa per oltre l’80% sui bilanci regionali, ed è quindi un importante banco di prova per studiare gli effetti che sono già causati dal federalismo finanziario e organizzativo.
L’attuazione di una differenziazione che concedesse ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, farebbe venire meno tutti i vincoli solidaristici che sono alla base dell’esistenza di uno Stato unitario, determinando una vera e propria secessione della parte più ricca del Paese dal resto dei territori lasciati svantaggiati. L’organizzazione e la gestione attualmente previste per i servizi sanitari regionali consentono da tempo un’ampia autonomia, sufficiente a soddisfare le esigenze di efficacia, efficienza ed economicità che le Regioni più capaci hanno tutto il diritto di fornire ai propri cittadini. Ma questa potestà concorrente non può spingersi fino a eludere gli obblighi imposti dalla Costituzione tenendo separati, per proprio comodo, il tema della tutela della salute (affidato allo Stato) da quello dell’organizzazione sanitaria (affidata alle Regioni).
Lo ha chiaramente ribadito anche una consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (chiarissima sul tema la sent. n. 371 del 2008, i cui contenuti sono stati ripetutamente confermati da altre successive, tra cui le sentt. nn. 54 del 2015 e 231 del 2017). L’autonoma organizzazione dei servizi sanitari regionali deve svolgersi necessariamente dentro il quadro unitario del SSN. Nessuna ulteriore differenziazione nell’ambito sanitario sarebbe costituzionalmente accettabile in assenza degli interventi necessari a ricucire il divario esistente tra i diversi sistemi sanitari regionali nell’erogazione dei servizi, che la Costituzione pretende uguali per tutti, caratterizzando il diritto alla salute come proprio dell’individuo, e superando così persino la stessa condizione di cittadinanza. E anche su questi aspetti il giudice delle leggi ha pronunciato chiarissime parole, affermando con la sent. n. 275 del 2016 che i LEA assumono un valore di perno del sistema «che vede collocata al centro della tutela costituzionale la persona umana, non solo nella sua individualità, ma anche nell’organizzazione delle comunità di appartenenza che caratterizza la socialità del servizio sanitario».
Fonte: articolo del Dott. Fabio Ascenzi
Tutto giusto. Due domande però, da cosa dipende il buco enorme creato al sud (compresa la Sicilia a statuto speciale salvo poi ricorrere allo Stato per ripianare) e chi ha voluto la riforma costituzionale del 2001 che ha portato a tutto ciò?
Ovviamente non in tutti gli articoli si possono riprendere i temi già trattati. In maniera complessiva ne parlo nel mio libro anche se, essendo dedicato all’Autonomia differenziata, non tratta nello specifico la situazione delle Regioni a Statuto speciale. Per conoscere la mia opinione rispetto alle tematiche poste nelle sue domande, intanto, può leggere alcuni articoli già pubblicati su questo sito: https://www.lentepubblica.it/contabilita-bilancio-tasse-tributi/autonomia-differenziata-residuo-fiscale/ E in particolare https://www.lentepubblica.it/contabilita-bilancio-tasse-tributi/diseguaglianze-territoriali-ripartizione-risorse-statali-regioni/ Per quanto riguarda la Riforma del 2001 la mia posizione è molto chiara. Magari, visto l’interesse, ne approfondirò gli aspetti in un prossimo articolo. In estrema sintesi penso che fu il risultato diretto di un… Leggi il resto »