Una fotografia dal 52° Rapporto Censis sugli italiani e la situazione sociale mostra una popolazione impaurita, incattivita che guarda al futuro con pessimismo.
Il Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, è un istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964.
Annualmente l’Istituto redige il Rapporto sulla situazione sociale del Paese, dal 1967. Viene considerato il più qualificato e completo strumento di interpretazione della realtà sociale del nostro Paese.
Giunto alla 52ª edizione, il Rapporto Censis interpreta i più significativi fenomeni socio-economici del Paese.
Vengono affrontati i temi di maggiore interesse emersi nel corso dell’anno: le radici sociali di un sovranismo psichico, prima ancora che politico, le tensioni alla convergenza e le spinte centrifughe che caratterizzano i rapporti con l’Europa, gli snodi da cui ripartire per dare slancio alla crescita.
Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media e la comunicazione, la sicurezza e la cittadinanza.
Società italiana
Il 52° Rapporto Censis parla di italiani incattiviti e delusi per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso.
“Una reazione pre-politica con profonde radici sociali, che alimentano una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico.”
L’Italia è il Paese dell’Unione europea che presenta la quota più bassa di cittadini che affermano di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori. Solo il 23%, contro una media europea del 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania.
Il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l’89% di quelle a basso reddito pensano che non potranno mai diventare benestanti nella propria vita e resteranno sempre nella loro condizione attuale.
Dato rilevante è anche che il 63,6% degli italiani sia convinto che nessuno ne difende interessi e identità, e devono pensarci da soli.
In questa situazione sociale, la diversità dagli altri viene percepita come pericolo da cui proteggersi: il 69,7% degli italiani non vorrebbe come vicini di casa i rom, il 69,4% persone con dipendenze da droga o alcol.
C’è poi un 52% convinto che si pensi di più agli immigrati che agli italiani. Con questi dati, le prospettive per il futuro restano pessimiste: il 35,6% degli italiani è infatti pessimista perché scruta l’orizzonte con delusione e paura, il 31,3% è incerto e solo il 33,1% è ottimista.
Welfare e Sanità
Riguardo a welfare e sanità, si presenta un rapporto tra italiani e Sistema Sanitario Nazionale in crisi e in linea con il resto del Rapporto. Senso di solitudine e crescente sensazione di disparità riguardo alle cure mediche.
Più della metà degli italiani, 54,7%, pensa infatti che in Italia le persone non abbiano le stesse opportunità di diagnosi e cure. Lo pensa il 58,3% dei residenti al Nord-Est, il 53,9% al Sud, il 54,1% al Centro e il 53,3% al Nord-Ovest.
D’altronde il grado di soddisfazione rispetto al Servizio sanitario della propria Regione è emblematico della situazione. Un valore medio nazionale del 62,3%, che oscilla tra il 77% al Nord-Ovest, il 79,4% al Nord-Est, il 61,8% al Centro e il 40,6% al Sud e nelle isole.
Tre i fattori che incidono: l’offerta del territorio di appartenenza, la condizione socio-economica e l’età delle persone.
Dal Rapporto si evidenzia un sempre più diffuso principio dell’autoregolazione della salute. Infatti, su 49,4 milioni di persone che soffrono di piccoli disturbi, il 73,4% si è detto convinto che sia possibile curarsi da soli.
Più della metà, il 56,5%, ritiene che sia possibile curarsi autonomamente perché ognuno conosce i propri piccoli disturbi e le risposte adeguate, il 16,9% lo fa perché è il modo più rapido.
Comunque, nonostante la crescita del web, i principali canali informativi degli italiani rimangono il medico di medicina generale (53,5%), il farmacista (32,2%) e il medico specialista (17,7%).
Occupazione
Parlando di occupazione e rischio povertà, nel 2017 il 12,4% degli occupati nella classe d’età 20-29 anni era a rischio povertà, in crescita di circa 10.000 unità.
Il rischio di povertà tra le persone con meno di 14 anni aumenta dal 20,4% al 25,1%.
Fra i 15 e i 24 anni un giovane su quattro è a rischio povertà, condizione questa che si riduce fra gli individui nella classe d’età 25-34 anni e soprattutto tra gli anziani con almeno 65 anni.
I sottoccupati sono 163.000 nella classe d’età 25-34 anni, il 23,5% dei sottoccupati complessivi. E gli occupati in part time involontario sono 16 su 100 giovani occupati di 25-34 anni, ovvero 675.000 persone.
Ci dice il Rapporto “lavoro povero e lavoro a ogni costo”.
Nei Paesi in cui è elevata la fiducia nell’Ue ed è positivo il giudizio sul proprio Paese, si registra una forte risalita post-crisi.
Mentre, nel gruppo di Paesi in cui la fiducia nell’Europa è bassa, e tra questi c’è anche l’Italia, anche il giudizio sulla situazione interna è negativo.
In questo gruppo il timore di rimanere senza un’occupazione è espresso dall’83% dei cittadini in Grecia e dal 69% in Italia, contro una media europea solo del 44%.
Continua poi lo squilibrio nel Paese tra Nord e Sud. L’uscita graduale dalla crisi è andata su due binari: Lombardia ed Emilia Romagna sono in pieno recupero, seguite da Veneto e Toscana, mentre il Lazio rimane 5 punti indietro, la Sicilia 10.
Il flusso dei lavoratori si sposta verso i territori più floridi: a Bologna il tasso migratorio è di 18,9 su 1000 abitanti, a Milano di 15,3 migranti, a Firenze di 13,2. Nel Mezzogiorno si contrappone la fuga dei residenti, 3,6 per ogni 1000 abitanti a Bari, 5,9 a Napoli, addirittura 9,2 a Palermo.
La risposta migliore al disagio resta la creazione di nuovo lavoro vero, con retribuzioni appropriate. In alcune aree territoriali il disagio si sente maggiormente: tra le province il cui tasso di occupazione presenta un divario rilevante rispetto al tasso di occupazione nazionale troviamo Reggio Calabria (-20,4%), Foggia (-19,8%) e Agrigento (-18,2%).
La disoccupazione giovanile è legata al tema della formazione. L’Italia investe in istruzione e formazione solo il 3,9% del Pil contro una media europea del 4,7%.
I laureati sono il 26,9% verso una media dell’Ue che ha toccato il 39.9%, mentre gli abbandoni scolastici riguardano il 14% contro una media europea del 10,6%. In Italia si spendono 11.257 euro per studente, contro i 15.998 della media Ue.
Anche la ricerca ha meno fondi, la spesa pubblica destinata alla ricerca passa dai 10 miliardi del 2008 agli 8,5 del 2017.
Considerazioni generali del 52° Rapporto
Secondo Il Rapporto la società italiana vive una crisi di spessore e di profondità. “Gli italiani sono incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro.”
In questa situazione, gli spazi vuoti lasciati dalla dialettica politica si riempiono del risentimento.
La considerazione generale dell’Istituto è che l’Italia sta andando: “da un’economia dei sistemi verso un ecosistema degli attori individuali, verso un appiattimento della società”. “Ciascuno afferma un proprio paniere di diritti e perde senso qualsiasi mobilitazione sociale”.
A giudizio del Censis “serve una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, che non si perda in vincoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi”.