piani-urbani-integrati-rigenerazione-urbanaForse non è tutto negativo il taglio dei finanziamenti PNRR ai Piani Urbani Integrati e alla rigenerazione urbana, a parte il fatto di capire dove vengono dirottati 1,8 miliardi destinati ai primi e 1,3 miliardi destinati ai secondi.

Probabilmente assorbiti da risorse da destinare alla difesa, o forse meglio da destinare all’attacco.

Fatto sta, che siamo immersi da anni nella convinzione che bisogna gestire una competizione tra le città serrata per attrarre flussi di denaro, merci e persone.

Piani urbani integrati e rigenerazione urbana: unico scopo è l’attrattività della città?

Chi governa le città continua a innescare processi politici che hanno al loro centro l’attrattività, come se non esistesse nessuna alternativa allo sviluppo delle città, mentre questa visione può invece dimostrarsi incompatibile con i concetti di inclusione, che invece teoricamente starebbero alla base di questi progetti.

Ad esempio, si è pensato che Milano non dovesse più concentrarsi semplicemente sulla propria produzione e sulla crescita, ma che dovesse competere con le città globali come Londra, Parigi o Berlino. Questa è una cosa esplicitamente rivendicata dai nuovi sindaci di Milano dell’ultimo ventennio.

Si punta quindi a un circuito internazionale, con una visione urbanistica di grandi progetti, grandi quartieri e grattacieli.

Questo tipo di sviluppo molto mediatico, utilizza ad esempio i grandi eventi come l’Expo per proiettarsi verso questa dimensione, per diventare una città attrattiva, e per entrare nel circuito delle città internazionali.

Per fare questo l’idea è che bisogna cambiare totalmente l’immagine, creare nuovi scenari urbani, come il Bosco Verticale, il parco disegnato da Petra Bless, ecc. riuscendo a innescare un nuovo processo comunicativo, poi messo a regime con l’Expo. Un evento di per sé mediocre, ma che è riuscito a essere configurato come qualcosa di straordinariamente bello e di successo.

La parola magica era “Nutrire il Pianeta“, nonostante fosse sponsorizzato da Coca-Cola, riuscendo a inculcare nel pubblico che era un’azione di attivismo, per risolvere il problema delle diseguaglianze nel mondo.

Questo tipo di comunicazione si è imposta in maniera massiccia alla città, trasformando una città in cui si organizzavano i servizi per i cittadini, servizi pubblici e di città produttiva e di cultura, in un luogo dove la valorizzazione dell’attrattività, della rendita e del metro quadro, di ogni metro quadro della città, come se questo fosse compatibile con la redistribuzione dell’uguaglianza, la rigenerazione dal basso, l’associazionismo.

Il passaggio dalla città produttiva alla città attrattiva

Questo passaggio tra una città produttiva e una città attrattiva ha comportato un’idea abbastanza precisa che è quella di sostituire, se non del tutto in maniera abbastanza massiccia, una popolazione residente con una popolazione più dinamica, quella popolazione cosiddetta short term, fatta di nomadi digitali, studenti di expat, dei grandi studi legali, di intermediari, dell’amministrazione, di esperti di intermediazione finanziaria.

Un tipo di popolazione che piace molto a chi governa le città, perché tendenzialmente, più tollerante e che crea meno problemi. Ma soprattutto non è affezionata alla città come era prima, perché non ci ha vissuto e non è generalmente molto interessata a come la città si trasforma, perché magari tra 4 o 5 anni abiterà Parigi, ad Amsterdam o a Londra.

Questo genere di popolazione richiede dei servizi anche diversi rispetto alla popolazione locale. Infatti bisogna chiedersi che fine fa popolazione locale. Chi non ha abbastanza denaro per reggere l’aumento dei prezzi delle case e il costo della vita, che naturalmente aumenta, con questi abitanti che sono più disposti a consumare.

Spesso queste persone meno ricche e più fragili sono anche quelle che fanno funzionare la città. Sono molto spesso i lavoratori, che vengono costretti a fare lunghe ore per spostarsi tra l’esterno e l’interno della città e tra l’altro, a prezzi anche quelli sempre più cari. Un processo di natura fortemente selettiva, che si presenta invece come un processo inclusivo, fortemente intriso di coesione sociale, di valori positivi, di valori ispirati alla sostenibilità ambientale che naturalmente invece non c’è, anzi viene largamente depressa.

Milano, naturalmente, è solo un esempio, non è l’unica città che ha intrapreso questo tipo di percorso. Il modello si ispira a modelli come New York o Londra, che però sono delle città, che sono state desertificate da questo tipo di politiche. A Manhattan non ci abita praticamente più nessuno, neanche gli stessi proprietari di appartamenti bellissimi nella West Side hanno facilità a rimanere nelle loro case che ormai sono diventate carissime.

Prevale l’idea che non ci sia altra scelta che competere per chi attrae meglio tutti questi flussi. La questione è quella di capire del perché siamo arrivati a questo punto e per capire cosa succederà in seguito.

Il tema dell’uguaglianza e della giustizia sociale

Quello che cambia radicalmente oggi è la questione del tema dell’uguaglianza, della giustizia sociale. Nessuno si pone il problema dell’uguaglianza tra i popoli, tantomeno tra le classi. Quindi, le cosiddette esternalità negative della competizione che non erano un problema prima, oggi invece sono temi da considerare per l’inclusività e la coesione sociale, che dovrebbero essere al centro delle preoccupazioni anche della stessa finanza.

Anche che la globalizzazione rende i territori molto più fragili nella loro interdipendenza. Quello che però è interessante, è che questo ventennio si è affinata una forma di critica e di conflitto ancora debole nelle sue manifestazioni materiali, ma invece potente nel riconfigurare le ideologie e le percezioni delle persone.

L’esempio di Barcellona

Esistono moltissimi esempi di reazione a questa specie di religione, della crescita e della competizione. Per esempio, Barcellona è un luogo dove, prima che in ogni altro posto nel mondo, probabilmente si sono resi conto che il turismo era veramente un problema.

Questa cosa poteva nascere anche a Venezia o a Firenze, ma invece è nata a Barcellona. Forse perché, appunto, a Venezia il processo è arrivato talmente in anticipo che non ha fatto in tempo a politicizzare, radicalizzare gli abitanti che sono stati nel frattempo tutti buttati fuori. Non ci sono quasi più abitanti veneziani a Venezia, mentre a Barcellona, che è una città sensibilmente più grande e popolata, la violenza dei grandi eventi ha trovato all’inizio, un’accoglienza favorevole, ma dopo un po’ di anni una fortissima resistenza.

Gli attivisti di Barcellona sono stati i primi a rendersi conto in maniera lucida che tutta la retorica della riqualificazione, poi rinominata “Rigenerazione urbana“, è una retorica che solo apparentemente si rivolge agli abitanti. “Io ti rifaccio la piazzetta, tolgo le macchine parcheggiate dal tuo portone, ti metterò delle piante, degli alberelli, un bar, dei tavolini“. Si sono resi conto che tutto questo però non era per loro, era per altri, per cui hanno iniziato a dire: “Non vogliamo le vostre piante o altre panchine, perché le vostre panchine non saranno per noi, ma noi saremo costretti ad andarcene“.

Certo, l’alternativa quale sarebbe? Rimanere in una città brutta? No. Però prima ci sono delle priorità, come cercare di calmierare il mercato e poi dopo si agisce giustamente per ristabilire una vivibilità dello spazio pubblico e del tessuto urbano.

A Barcellona, Tempelhof era un vuoto urbano assolutamente paragonabile a quello che a Milano sono gli ex scali ferroviari, e naturalmente la proposta del governo era quella di affidare la riqualificazione di questo aeroporto a qualche privato che ne avrebbe fatto, a parte speculazione, rigenerazione del luogo con la costruzione di uffici, edifici di lusso, ecc., quindi una parte di parco “donato” ai cittadini. Questi ultimi hanno detto: “non ci interessa assolutamente nessuna donazione. Dateci il parco, così come l’aeroporto, con tutte le piste ancora tracciate. Non date nessun agevolazione a nessun privato“.

E infatti sono riusciti a indire un referendum, a vincerlo ed effettivamente, la città si è riappropriata di uno spazio enorme che è diventato un parco piacevolissimo, dove si fa un certo tipo di cose ludiche che non si potrebbero fare da altre parti.

Naturalmente anche quello ha avuto comunque un effetto, infatti, i valori immobiliari intorno a Tempelhof, sono decollati in maniera spaventosa. Però si è realizzata quella che dovrebbe essere la politica più democratica, dove nessun processo di trasformazione dovrebbe avvantaggiare in maniera così sproporzionata solo i grandi attori immobiliari.

Un cambiamento è possibile?

È possibile tendere verso una politica che riesca a dare le case pubbliche anche  a studenti giovani che vogliono semplicemente uscire di casa, giovani coppie, famiglie, persone che in qualche modo, per qualunque motivo, non riescono a intercettare case sul mercato normale. Dove le case popolari non devono avere lo stigma dell’emarginazione.

Il modo per non creare ghetti non è tanto cambiare progetto o architetto, ma è ampliare l’offerta. Oggi queste soluzioni sono tutte viste come delle cose improbabili, improponibili. Ma cosa potrebbe succedere se riuscissimo in qualche maniera a fare passare questo messaggio di reversibilità dello stato attuale delle cose?

In effetti è possibilissimo che le cose cambino. Deve nascere una consapevolezza del fatto che è necessario creare delle infrastrutture territoriali su tutto il territorio, quello urbano e quello extraurbano, che non siano di estrazione della ricchezza a favore di pochi, ma che siano invece di diffusione di servizi e benessere, e in qualche maniera anche di legami sociali. Si diffonde sempre di più nelle popolazioni la sensazione che questo regime di competitività internazionale feroce sia incompatibile con i più basilari principi di democrazia.

Forse, se si riesce in qualche modo a diffondere questa convinzione in maniera equilibrata, si potrebbero ristabilire delle economie differenti. Non è assolutamente detto che debba vincere questa idea di selezione naturale, dove i più deboli sono semplicemente elementi che non ce l’hanno fatta e che è giusto che soccombono.

È importante insistere moltissimo sul disvelamento di quella falsa ideologia, dove il capitalismo offusca le contraddizioni generate dal sistema.

 

 


Fonte: articolo di Roberto Recordare