Molte le osservazioni, anche critiche, che la cosìdetta “Legge Delrio” ha attirato su di sè. E’ indubbia tuttavia la sua forte valenza culturale, almeno nella misura in cui introduce un elemento totalmente nuovo per lo scenario italiano, quello della collaborazione. Collaborazione tra amministrazioni prima totalmente separate e, ancora, collaborazione tra apparati professionali, segretari e dirigenti. Pubblichiamo di seguito il testo pubblicato nella rassegna ASTRID di Pietro Barrera, interessante riflessione su questa “idea ragionata di semplificazione del sistema Italia”.
E’ una buona legge. La c.d. “legge Delrio”, nel testo approvato al Senato il 26 marzo, se pure ha mille limiti e difetti, è comunque una buona legge. Ed è un peccato che la vulgata (non inconsapevole) l’abbia descritta semplicemente come “svuota province”, o addirittura come “quasiammazza province”. In quel provvedimento – attendiamo ora un rapido terzo round alla Camera dei deputati – c’è molto di più, e sarebbe davvero un peccato banalizzarne il significato.
Al fondo c’è un’idea di ragionata semplificazione del sistema Italia. Tre soli livelli di governo legittimati dal suffragio universale – lo Stato, le Regioni e i Comuni – e un modello di amministrazione che tenga conto delle dimensioni e della complessità del paese. Dopo decenni di retorica sull’ “Italia dei Comuni”, si prova a prendere sul serio la sfida già suggerita dal primo comma dell’articolo 118 della Costituzione: in linea di principio sarebbe bene che tutte le funzioni amministrative fossero esercitate dai Comuni. Ma il buon senso, e la storia concreta del nostro paese, ci dice che così non basta, non può funzionare, e che i Comuni si devono attrezzare a collaborare tra loro. Altre strade non ce ne sono: l’accorpamento forzoso dei Comuni non è legittimo, né ragionevole, né praticabile: fallì persino il fascismo, alla fine degli anni venti, e ha fallito la Francia repubblicana che, con una popolazione non dissimile da quella italiana, ha quattro volte il numero dei nostri Comuni.
Devono collaborare i Comuni più piccoli, esercitando insieme le funzioni fondamentali, per poter offrire servizi di buona qualità ai propri cittadini a costi sostenibili. Dovranno collaborare tutti i Comuni, con la nuova organizzazione delle Province, per svolgere in modo efficace le funzioni che so collaborare in modo ancora più stretto, rafforzando le sinergie reciproche, i Comuni che condividono lo spazio di una grande area urbana, interconnessa da mille vincoli socio-economici, infrastrutturali e culturali. L’associazionismo dei piccoli Comuni, le nuove Province e le Città metropolitane non sono tre “capi” casualmente collocati nello stesso disegno di legge, ma i tre piani di un percorso logico unitario. Senza uno di loro, anche gli altri vacillano.
In queste righe, vorrei concentrare l’attenzione solo su due elementi di forte innovazione culturale, e proprio per questo di grande difficoltà applicativa. Il primo attiene proprio alle forme (dunque alla cultura) della collaborazione. Le Città metropolitane, le nuove Province e le Unioni di Comuni funzioneranno se il paese (i Comuni, le forze politiche, le forze sociali) sapranno immaginare, costruire e far vivere ogni giorno la dimensione della amministrazione condivisa. Per certi versi è una rivoluzione, per un paese che almeno da vent’anni sembra aver assolutizzato il modello dell’ “uomo solo al comando” come unica possibilità per avere governi e amministrazioni efficaci. Certo, il modello ha funzionato bene per i Comuni, rafforzandone la natura di “ente esponenziale” di una comunità, riconoscibile e responsabile. Ma abbiamo sbagliato, nel ’93, a prevedere lo stesso meccanismo per le Province, sospingendole verso una irragionevole sovrapposizione contrapposizione con i Comuni, a detrimento della tradizionale vocazione “cooperativa”. La “legge Delrio” ci indica una prospettiva differente: chiede ai Sindaci, agli amministratori di diverse comunità, anche se, fisiologicamente, di diversa estrazione politica, di trovare un terreno di convergenza, per individuare interessi e linee di azione comuni su una scala territoriale ragionevole.
Questa sfida è particolarmente evidente nelle Città metropolitane. Il traguardo di una politica di integrazione e sviluppo nelle maggiori aree urbane del paese può essere raggiunto solo se il Comune capoluogo (il Sindaco metropolitano) dimostrerà di volersi far carico delle attese, delle esigenze e delle preoccupazioni delle comunità dell’hinterland, e se i Sindaci degli altri Comuni comprenderanno che il “grande vicino di casa” è per loro al tempo stesso un oggettivo problema e una formidabile chance, e che per questo è indispensabile collaborare e amministrare insieme. Ancora oggi non riesco a trovare parole migliori, per l’area metropolitana romana, di quelle usate centocinquant’anni fa da Luigi Pianciani, Sindaco di Roma e presidente del Consiglio provinciale poco dopo Porta Pia: “amministrare – diceva quel vecchio garibaldino – in guisa che i bisogni dell’ultimo villaggio delle nostre montagne abbiano tanto peso quanto possano averne quelli della Capitale stessa”. Oggi dovremmo semplicemente aggiungere che la Città metropolitana non sarà solo la somma di interessi parziali (del Capoluogo e dell’”ultimo villaggio” di montagna), ma lo strumento per mettere a fattor comune energie, risorse e prospettive di sviluppo.
Per questo è un peccato (uno dei difetti della legge) che i consigli metropolitani siano di così modesta dimensione, non in grado di rappresentare al meglio tutta la complessità metropolitana, e che non sia prevista la giunta, organo di governo collegiale, ma lo statuto metropolitano potrà promuovere e favorire la prospettiva dell’amministrazione condivisa, esaltando il ruolo della Conferenza metropolitana (l’assemblea dei Sindaci), calibrando bene le modalità di esercizio delle funzioni della Città e dei Comuni (anche in modo differenziato e “asimmetrico” sul territorio metropolitano) e valorizzando le deleghe che il Sindaco metropolitano potrà assegnare ad altri consiglieri, ad altri “colleghi amministratori”.
Dalla natura di amministrazioni di secondo livello deriva anche l’altra grande novità, probabilmente fin qui sottovalutata. I Sindaci, fortemente impegnati nei propri Comuni (grandi o piccoli che siano), avranno anche il compito di guidare le amministrazioni di area vasta: le Province e le Città metropolitane. Lo faranno avvalendosi della collaborazione preziosa di amministratori meno “impegnati” – anche i consiglieri comunali potranno essere eletti nei consigli provinciali e metropolitani – ma soprattutto scommettendo sulla autorevolezza, lealtà ed efficacia degli apparati professionali, dei segretari, dei dirigenti. Anche questa è una grande sfida culturale. Per molti decenni l’amministrazione locale (comunale e provinciale) è stata caratterizzata da una fortissima quotidiana “contiguità” tra organi di governo e apparato professionale, tra l’assessore e il dirigente, talvolta travalicando l’indispensabile linea di demarcazione tra responsabilità politiche (necessariamente “di parte”) e responsabilità gestionali (auspicabilmente imparziali). Ora dovremmo immaginare amministrazione di area vasta – con importanti attribuzioni funzionali – in cui la presenza della politica sarà meno assidua, meno impegnata nel governo day by day.
Sarà un male, se ciò fosse l’esito di una astrazione tecnocratica, che tendesse a banalizzare il valore politico delle scelte amministrative (dove collocare una importante infrastruttura, dove indirizzare le risorse finanziarie comunque scarse …), fino a rischiare una opaca autoreferenzialità dell’apparato professionale. Ma sarà un bene, se finalmente le “due parti” dell’amministrazione si sentiranno impegnate a far bene ciascuna il proprio mestiere: la politica a fare davvero “indirizzo e controllo”, e la dirigenza ad assumersi chiaramente le proprie responsabilità. Per questo è necessario (ancorché difficile e insidioso) affiancare a questa legge una buona riforma della dirigenza pubblica.
Concludo questa breve nota – troppe altre cose ci sarebbero da dire! – con tre sottolineature, sui due “poli opposti” del nuovo sistema di amministrazione locale – le Città metropolitane e i piccoli Comuni – e poi ancora sugli apparati professionali.
Per le Città: la “funzione metropolitana” sottolineata con maggior forza dalla legge è quella dello “sviluppo strategico del territorio metropolitano”, che si declinerà con il piano strategico triennale (“atto di indirizzo” sia per l’amministrazione metropolitana che per i Comuni del territorio) e con le politiche attive di “promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale, assicurando sostegno e supporto alle attività economiche e di ricerca innovative e coerenti con la vocazione della città”. La risposta alla crisi sta in questa scommessa, e non nel banale e demagogico “risparmio” delle indennità dei consiglieri provinciali o metropolitani. Certo, le Città metropolitane serviranno a razionalizzare la rete dei servizi e a dare respiro e coerenza alle funzioni di governo del territorio e della mobilità pubblica e privata, ma sarebbero poca cosa se non mettessero davvero al primo posto nella propria agenda la costruzione di una strategia di sviluppo economico e sociale, all’altezza della crisi che ancora pesa sul paese e della crescente competizione globale tra “sistemi città”.
Per i piccoli Comuni, considerando che la sfida associativa non è nuova (l’obbligo di esercizio associato delle funzioni fondamentali risale al 2010, e il legislatore ci è tornato più volte, fino alla “spending review” del 2012), non si devono ripetere gli errori del passato. Il più grande, in tutti questi anni, è stato quello di sottovalutare la “fatica dell’implementazione”, affidando ogni speranza alla capacità auto applicativa della legge. Così non è, soprattutto per riforme che si debbono calare nei territori, in realtà “periferiche” segnate da specifiche difficoltà, problemi, resistenze. Per questo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale della nuova legge deve essere seguita da un “piano di lavoro” intenso ed organico, che veda lavorare insieme il Governo, le Regioni, l’Anci e l’Upi. Dopo gli architetti (della riforma), serviranno gli artigiani, per lavorare sui dettagli – le norme per la contabilità o per la gestione del personale che ancora ostacolano il percorso associativo, la formazione degli amministratori e dei “tecnici”, le nuove funzioni di assistenza ai Comuni, soprattutto in materia di appalti e di reclutamento del personale, che la legge affida alle Città metropolitane e alle nuove Province – e servirà una grande azione di convincimento e di motivazione. Un compito che spetta alle istituzioni e ai partiti politici (che, almeno su questo punto, non sembrano su posizioni troppo distanti l’uno dall’altro), e alle stesse forze sociali, a cominciare dai sindacati dei lavoratori pubblici.
Questa è proprio l’ultima notazione. La legge – nel segmento certamente più “critico” agli occhi dei lavoratori pubblici, la progressiva “spoliazione funzionale” delle province – indica la strada di un franco e aperto coinvolgimento delle organizzazioni sindacali. Nessun diritto di veto, nessuna concertazione dai tempi infiniti, ma la consapevolezza che le riforme andranno avanti sul territorio solo coinvolgendo, dialogando, cercando insieme le soluzioni. In tempi in cui torna una certa sbrigativa tentazione di contrapporre decisione e dialogo sociale, mi sembra una indicazione di qualche importanza.
FONTE: Forum PA
AUTORE: Pietro Barrera