Qualche giorno fa è emersa la necessità di censire le competenze dei dipendenti dell’amministrazione pubblica secondo standard UNI 11506:2013 “Attività professionali non regolamentate”. A che punto siamo su questo fronte?
Era il lontano 1 marzo 2012, quando il governo Monti presentava un documento, con l’ambizioso obiettivo di predisporre entro giugno 2012 una serie di decreti (il cosiddetto Digitalia) che avrebbero dovuto costituire, assieme ai progetti operativi, la strategia dell’Agenda Digitale Italiana. Mesi di lavoro, che hanno portato alla stesura di diversi piani d’azione, molti dei quali sono finiti come white paper all’interno di un sito Web www.agenda-digitale.it, attualmente dismesso e in cui compare la poco rassicurante indicazione di “sito in costruzione”. Il problema purtroppo non è il sito, ma ciò che dovrebbe andarci all’interno di questo contenitore, considerato che da quel fatidico 1 marzo 2012 sono cambiate molte cose: sono passati tre governi, tre Digital Champion, è stata costituita una nuova agenzia (Agenzia per l’Italia Digitale), è stato nominato un commissario per l’Agenda Digitale con tanto di tavoli di esperti, sono stati emanati “n” decreti di attuazione e sono stati riproposti in più salse gli obiettivi dell’Agenda Digitale Italiana. Il tutto, con un semestre di presidenza europea che ospiterà nel nostro paese a luglio, a Venezia, la Digital Assembly.
Dai media apprendiamo sempre notizie in ambito di digitalizzazione, definendo come panacea per tutto la diffusione della banda larga e l’informatizzazione della pubblica amministrazione – argomenti senz’altro importanti ma che non contribuiscono alla crescita delle competenze digitali. E il problema è proprio qui, nelle competenze. Diversi tavoli di lavoro negli ultimi mesi hanno operato per predisporre dei documenti che saranno resi pubblici all’evento di lancio che si terrà all’Agenzia per l’Italia Digitale il 10 aprile[1]. Ciò che mi auspico come cittadino è che tali documenti non siano il classico “libro bianco” di analisi della situazione attuale ma siano delle analisi delle criticità italiane nei diversi settori identificati dal piano di alfabetizzazione nazionale (competenze di base, professionali, di e-leadership e competenze digitali nella PA), fornendo allo stesso tempo obiettivi reali, misurabili ed economicamente sostenibili.
La mia paura, viste le attività precedenti, è che per l’ennesima volta si perda l’occasione di intervenire per la crescita delle competenze, ovvero per la rimozione delle incompetenze digitali.
Si parla di piano nazionale e poi si legge di “linee guida” che come ben sa chi segue le attività di normazione non sono altro che dei suggerimenti e indicazioni, ovvero non hanno carattere cogente. Il lavoro che sarà presentato sarà senz’altro di qualità ma il governo a mio avviso deve fare quel passo in più per recepire da tali linee guida alcune indicazioni di base fissando obiettivi e relative risorse.
Il problema alla base della cultura digitale nel nostro paese è l’incompetenza digitale, ovvero la presunta competenza che non consente l’incremento delle capacità e conoscenze sia in ambito professionale, sia nella PA. Spesso il concetto di competenza è visto come possesso di titolo di studio, di attestati di competenza di diversi livelli (commerciali, quali certificazioni di prodotto o test con rilascio di attestazione da parte di associazioni culturali come ECDL, EIPASS, ecc.) e non viene calato nella realtà economico-operativa. L’incompetenza digitale porta a scelte errate in fase di progettazione (se e quando viene fatta), di implementazione e/o di acquisto soprattutto se legata alla P.A. dove l’informatica ed in generale l’innovazione sono uno dei tanti settori in cui i responsabili dei vari uffici tendono a crearsi il proprio “orto digitale”. L’assenza di cultura digitale nonché obblighi alla creazione di banche dati condivise rende il dato, il documento, l’informazione un “tesoretto” da non condividere con altri, un centro di potere che consente di mantenere un “grado superiore” nella scala dell’innovazione.
Questo crea costi inutili, disagio all’utenza e soprattutto barriere all’innovazione. Gli incompetenti digitali sono un costo per la collettività, ed il problema va risolto alla radice, specialmente nella P.A.Qualche giorno fa discutendo via twitter con il Capo Dipartimento Funzione Pubblica (Antonio Naddeo) è emersa la necessità di censire le competenze dei dipendenti dell’amministrazione pubblica secondo standard UNI 11506:2013 “Attività professionali non regolamentate – Figure professionali operanti nel settore ICT – Definizione dei requisiti di conoscenza, abilità e competenze”. Se non riusciamo a definire un modello condiviso, un riconoscimento delle competenze reali (ovvero quelle richieste dal mercato, che spesso non coincide con quelle richieste dalle associazioni di categoria), se non iniziamo a diffondere una cultura digitale di base sia in ambito lavorativo sia in ambito sociale lasceremo sempre agli incompetenti digitali la decisione delle grandi scelte per l’innovazione. Rendiamoci conto che ancora oggi c’è chi parla di utilizzo di “nuove tecnologie” anziché parlare di tecnologie ICT, ovvero non si è ancora giunti alla comprensione del fatto che tutto ciò che viene proposto non è nulla di nuovo ma è qualcosa già largamente diffuso nel mercato che, per diverse ragioni, è stato avverso e/o non considerato sia dai privati che dalle imprese che dalla P.A. Siamo stati abituati negli anni passati alla burocratizzazione del digitale, con disincentivazione all’uso degli strumenti informatici per interagire con la PA. Di chi è la colpa? Di diversi soggetti, da chi compra il prodotto a chi svuota i magazzini tramite il MEPA sino all’assenza di specifiche competenze nella fase di collaudo dei prodotti, di chi non ha competenze nella gestione della contrattualistica dei servizi, di chi si fa vendere la “patacca digitale” come se fosse l’ultimissima novità.
Alla base di tutto c’è l’ignoranza digitale, che è incrementata anche dalla scarsa condivisione delle esperienze. Siamo il paese delle decine di osservatori che producono paper digitali da convegnistica che nella maggior parte dei casi non portano alla pianificazione di interventi, lasciando ai singoli soggetti l’iniziativa. E quindi si sperimenta: nascono le agende regionali locali che creano programmi regionali, iniziative regionali, convegni regionali e non aprono alla condivisione creando il paradosso per cui in ambito Web (che per definizione non ha confini) si creano differenziazioni su base regionale. Il governo con il nuovo Digital Champion dovrà avere il coraggio di andare oltre, di prendere con forza le redini della digitalizzazione del paese andando oltre agli importanti percorsi già tracciati (pensiamo alla fatturazione e sanità digitale, in ambito PA), indentificando le buone pratiche locali per definirne la standardizzazione in ambito nazionale.
La standardizzazione serve a garantire anche la qualità, criteri di misurazione. Pensiamo anche al settore delle professioni dove in ambito UNI i principali attori del settore ICT (gran parte dei quali sottoscriveranno l’accordo del 10 aprile con AgID) hanno la possibilità di incentivare la normazione delle competenze digitali, riconoscendo quindi il valore (tecnico ed economico) delle nascenti professionalità che possono aiutare a rilanciare il paese, partendo proprio dalle professionalità Web sino agli skill di altra specializzazione, senza dimenticarsi però di rieducare gran parte della popolazione che ancora oggi è stata alfabetizzata a livelli medio bassi con patenti e patentine all’uso di specifici programmi, senza quindi creare una cultura digitale ma una cultura di prodotto. Senza standardizzazione, senza specifici obiettivi per settore con adeguata misurabilità rimarremo nella babilonia digitale, dove vinceranno gli incompetenti digitali che continueranno a fare la fortuna di chi, ciclicamente, deve svuotare i magazzini.
FONTE: Agenda Digitale (www.agendadigitale.eu)
AUTORE: Roberto Scano, Iwa (associazione internazionale per la professionalità nel web)