La riforma costituzionale su cui si sta accendendo il dibattito poltico è senza dubbio quella della trasformazione (o abolizione) del Senato. Eppure ce n’è un’altra, forse meno nota e clamorosa, ma ugualmente epocale: l’abilizione del CNEL. Organo costituzionale e “casa delle rappresentanze” il CNEL è – per molti – un oggetto abbastanza oscuro e – per il Governo – una struttura non più rispondente alle esigenze del Paese.

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“Infine, il disegno di legge prevede l’abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, organo che non appare oggi più rispondente alle esigenze di raccordo con le categorie economiche e sociali che in origine ne avevano giustificato l’istituzione”. Con questa lapidaria affermazione la relazione al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 31 marzo dà conto delle ragioni che hanno spinto l’esecutivo a proporre la soppressione dell’articolo 99 della Costituzione. E con ciò, avviare il processo disoppressione del CNEL. Le parole-chiave nel testo approvato dal Governo sono quelle che definiscono il Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro un organo “non più rispondente” ai motivi che ne avevano “giustificato” l’istituzione. Posta in questi termini, la radice della questione sta nell’idea di dover “giustificare” perché, al fianco di due Camere elettive, debba esserci un organismo con funzioni di rappresentare gli interessi.

Si tratta di un tema – trasformare il Senato del Regno in una Camera degli interessi – che, all’inizio dello scorso secolo, si incrociò con le modalità della rappresentanza politica. Padre naturale del CNEL fu il Consiglio superiore del lavoro, istituito nel 1902 sotto la spinta di Giuseppe Zanardelli e di Giovanni Giolitti. Nei suoi ventuno anni di vita il Consiglio del lavoro ebbe due meriti essenziali: contribuì enormemente a far avanzare la nascente legislazione sociale e legittimò la presenza delle classi lavoratrici nelle istituzioni. Meno incisiva fu la sua capacità di intervento nella mediazione dei conflitti sociali.

Alla Costituente si discusse molto dell’istituzione di un organismo statale che potesse rappresentare gli interessi delle forze sociali. Ne uscì, come forma di compromesso, l’articolo 99 della Costituzione, il quale attribuì al CNEL funzioni di grande rilievo, che non hanno mai trovato sbocco adeguato nella sua azione. Principalmente perché il Parlamento e il governo non hanno ritenuto utile far leva sull’apporto del Consiglio, poiché la mediazione degli interessi si è sviluppata – quasi esclusivamente – nel rapporto diretto tra governi, partiti, organizzazioni sindacali. Se il ruolo di mediazione non è, di fatto, mai esistito, assai esile è stato, nel complesso, il peso avuto dal CNEL nel ruolo di organo di consulenza istituzionale. Ne è traccia evidente l’esiguità complessiva dei pareri che al Consiglio sono stati chiesti nell’arco di oltre mezzo secolo. Soltanto sul piano della elaborazione di proposte di sua iniziativa il CNEL ha svolto una funzione ragguardevole, ma raramente le sue analisi hanno trovato ascolto.

La “anomalia genetica” del CNEL sta nel doppio binario delle sue attribuzioni. Da un lato organo ausiliario – di alta consulenza – del Parlamento, del Governo e (poi anche) delle Regioni; dall’altro, luogo di mediazione tra le parti sociali per il confronto e la risoluzione dei conflitti. Per metà “istituzione” di rango costituzionale (come afferma, quasi unanime, la dottrina giuridica da mezzo secolo) e, per l’altra, casa delle rappresentanze (secondo la brillante formulazione di Giuseppe De Rita). Queste “due anime”, invece di sorreggersi vicendevolmente, hanno contribuito a accrescere l’incertezza operativa del Consiglio e a fornire un’immagine poco chiara del suo ruolo e delle sue funzioni. Di fatto, il CNEL è stato – per la gran parte della pubblica opinione – un oggetto oscuro. Che sale alla ribalta quando se ne chiede la soppressione.

Eppure, è del tutto evidente il ruolo che – nella crescente complessità delle società contemporanee – potrebbe svolgere un soggetto, ad alta indipendenza istituzionale, in grado di fare sintesi delle esigenze emergenti dal tessuto sociale e produttivo. La fortissima articolazione sociale rende, a ben vedere, quasi indispensabile strutture deputate a “filtrare” e interpretare i fenomeni che attraversano il tessuto sociale e produttivo del Paese. Un ruolo da costruire ex novo. A partire dalla necessità dell’indipendenza.

Nel progetto governativo di ridisegno costituzionale i riflettori sono accessi – non potrebbe essere altrimenti – sulla nuova natura che si vuole dare al Senato. Nuova natura o snaturamento, si vedrà. La soppressione del CNEL rischia di andare a “rimorchio” di una vicenda di portata più ampia. Così come è, il CNEL ha poca ragione di esistere ed è difficile pensare alle capacità taumaturgiche di una autoriforma, fatta peraltro in un clima da ultima spiaggia. L’ipotesi teoricamente percorribile – se si decide di non andare fino in fondo con la scelta della soppressione – potrebbe essere quella di ripartire da zero, prevedendo un organo snello, con compiti di analisi e di proposta, al quale sia attribuita la funzione di dare – in tempi rapidi e definiti – pareri obbligatori su una serie di tematiche riguardanti l’economia e il lavoro. Ma tale prospettiva può avere senso soltanto a due condizioni.

1. Che il nuovo organismo abbia una caratura tecnica di grande spessore;

2. Che ne siano definite con  precisione le funzioni. Che, in ogni caso, non possono essere quelle di mediazione tra le forze sociali. Su questo terreno sono altri i soggetti in campo.

La parabola istituzionale del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro trova una rappresentazione in una singolare coincidenza. Il primo presidente del CNEL, Meuccio Ruini, era stato sottosegretario al ministero dell’Industria nel governo Orlando dopo la grande guerra; l’attuale – e forse ultimo – presidente, Antonio Marzano, è stato ministro delle Attività produttive (ex Industria) all’inizio dello scorso decennio. Corsi e ricorsi, come si addice alla storia.

FONTE: Forum PA

AUTORE: Stefano Sepe

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