La Corte di Cassazione ha recentemente stabilito, con l’ordinanza 27610/2024, che può essere legittimamente licenziato il dipendente che beve “troppi caffè”: scopriamone di più.
Non saranno magari i famigerati “7000 caffè” di cui parlava Alex Britti in una sua canzone: ma fare troppe pause per assumere la gustosa bevanda può costare caro al lavoratore.
I giudici della Cassazione hanno infatti recentemente stabilito che un datore di lavoro può procedere con il licenziamento di un dipendente che trascorre ripetutamente e senza giustificazione periodi prolungati in luoghi pubblici durante l’orario di servizio.
Il caso riguarda un lavoratore licenziato dopo essere stato osservato da un investigatore privato, incaricato dalla sua azienda, mentre si intratteneva in spazi pubblici, consumando cibi e bevande e chiacchierando con i colleghi per tempi considerati irragionevoli.
Dipendente beve troppi caffè: licenziato
Secondo la sentenza, il comportamento del lavoratore è risultato incompatibile con gli obblighi contrattuali, costituendo una violazione grave. La Cassazione ha evidenziato che tale condotta non solo comprometteva la fiducia tra datore di lavoro e dipendente, ma assumeva anche una rilevanza penale, configurabile come “truffa”. Il lavoratore, infatti, avrebbe beneficiato di pause non autorizzate e poi attestato falsamente nei fogli di servizio di aver rispettato l’orario pattuito. Tale azione ha determinato, secondo la Corte, un danno economico per l’azienda, che ha pagato una retribuzione non pienamente dovuta.
La Corte ha inoltre sottolineato che, indipendentemente dalla possibilità di configurare il reato di truffa, la sistematicità di tali comportamenti rappresenta un elemento in grado di spezzare il legame di fiducia su cui si fonda il rapporto di lavoro. La decisione della Cassazione offre così un importante chiarimento sull’applicabilità della sanzione estrema del licenziamento per giusta causa in situazioni che evidenziano una chiara mancanza di lealtà e rispetto verso gli obblighi aziendali, tutelando il diritto del datore di lavoro a fare affidamento sull’impegno effettivo dei propri dipendenti.
Questa pronuncia potrebbe diventare un punto di riferimento per le aziende, che spesso si trovano a dover verificare il corretto adempimento delle mansioni dei propri dipendenti, soprattutto in un contesto in cui la fiducia reciproca riveste un ruolo fondamentale nella dinamica lavorativa.
Tuttavia bisogna anche tenere a mente i diritti dei lavoratori.
Il diritto alla pausa caffè
La pausa caffè in azienda, anche se percepita spesso come un momento informale di ristoro, è disciplinata in Italia da specifiche normative che ne definiscono i limiti e il contesto di applicabilità. Questo diritto dei lavoratori, nato come esigenza di recupero psicofisico, è regolato dal Codice Civile e dal Decreto Legislativo n. 66 del 2003, che recepisce direttive dell’Unione Europea in materia di organizzazione dell’orario di lavoro.
Norme generali e applicazione
Il Decreto Legislativo n. 66/2003 stabilisce, all’articolo 8, che un lavoratore impegnato per più di sei ore continuative ha diritto a una pausa di almeno 10 minuti. Questo periodo serve per riprendersi dall’attività lavorativa e garantire la sicurezza e il benessere fisico del lavoratore, specialmente in contesti che possono comportare un forte stress o mansioni ripetitive.
La durata della pausa può variare a seconda del contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL) applicato nel settore specifico. Ad esempio, nel settore pubblico e in alcune categorie industriali o dei servizi, le pause possono essere estese e includere momenti di riposo dedicati specificamente alla socializzazione o al ristoro, come la pausa caffè. Alcuni contratti collettivi prevedono infatti una pausa di 15-20 minuti per coloro che svolgono mansioni gravose o particolarmente intensive, e in tali casi la pausa può includere anche il consumo di un caffè o una chiacchierata con i colleghi.
Obblighi e limiti: controlli e discrezionalità aziendale
Le aziende hanno il diritto di regolamentare l’utilizzo delle pause attraverso policy interne, purché queste siano in linea con quanto previsto dalla legge e dai contratti collettivi. Le modalità di controllo, tuttavia, devono rispettare la privacy del lavoratore. I datori di lavoro non possono monitorare direttamente i dipendenti in maniera intrusiva durante queste pause; devono invece affidarsi a strumenti che tutelino il rispetto della riservatezza, secondo quanto stabilito dal Codice della Privacy e dal Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR).
Un esempio di controllo indiretto può essere rappresentato da badge di accesso o dalla registrazione delle pause tramite sistemi elettronici, purché queste misure siano comunicate al lavoratore e non risultino invasive. È tuttavia prassi consolidata che le pause brevi come quella per un caffè, pur rientrando in alcune casistiche di riposo obbligatorio, non siano soggette a un controllo rigido, a meno di abuso evidente.
Conseguenze di un abuso
Un uso eccessivo e reiterato delle pause, come confermato dalla recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, può compromettere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. La Suprema Corte ha chiarito che una sosta prolungata e ingiustificata durante l’orario di lavoro, che diventi un’abitudine sistematica, può giustificare il licenziamento per giusta causa, poiché viola gli obblighi contrattuali e causa un danno economico per l’azienda.
L’abuso delle pause è stato anche oggetto di interpretazioni nel diritto penale, dove, in casi estremi, si è configurato come reato di truffa ai danni dell’azienda se il lavoratore dichiara falsamente di aver rispettato l’orario di lavoro.
In sintesi
La pausa caffè è dunque un diritto riconosciuto dalla legge e tutelato dai contratti collettivi nazionali, con una durata minima che varia a seconda del tipo di lavoro e del CCNL applicato. Tuttavia, per evitare abusi, è importante rispettare i limiti di durata e frequenza delle pause, pena il rischio di interventi disciplinari. In questo modo, la pausa caffè rimane un momento di ristoro legittimo e positivo per il lavoratore, all’interno di un quadro normativo che ne garantisce l’equilibrio tra benessere personale e produttività aziendale.
Il testo della sentenza
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