Un approfondimento, a cura di Fabio Ascenzi, sulle prime richieste riguardanti le 9 materie non-lep, in attesa del giudizio su ricorsi e referendum per l’Autonomia differenziata. 


Dopo l’approvazione della legge n. 86/2024, contenente disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata, l’attenzione si è concentrata su due punti opposti, ma entrambi focali: gli strumenti utilizzabili per una sua abrogazione e le possibilità per una sua immediata applicazione.

Per i sostenitori dell’abrogazione della legge, non vi è dubbio che la maggiore visibilità sia stata assorbita dalla campagna di mobilitazione organizzata in piena estate per la raccolta delle firme necessarie a richiedere la convocazione di un Referendum ai sensi dell’art. 75 Cost.

L’obiettivo è stato raggiunto con un risultato lusinghiero, considerato che lo scorso 26 settembre il Comitato promotore ha depositato in Cassazione circa 1.300.000 sottoscrizioni a sostegno del quesito che chiede la cancellazione totale della norma Calderoli.

A questo si sono poi aggiunti i quesiti per l’abrogazione parziale, presentati sempre ai sensi dello stesso articolo da cinque consigli regionali (Campania, Sardegna, Emilia-Romagna, Toscana e Puglia). All’opzione referendaria, inoltre, si è affiancata anche l’azione di quattro Regioni (Campania, Sardegna, Toscana e Puglia) che hanno proposto diversi ricorsi in via principale ai sensi dell’art. 127 Cost., per il quale quando una Regione ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte, entro sessanta giorni dalla pubblicazione.

Questi ultimi sono di assoluta importanza poiché se, come trapelato da alcune notizie riportate sulla stampa, la Corte costituzionale dovesse esprimersi nel merito di essi prima che sull’ammissibilità dei quesiti referendari, ne scaturirebbero evidenti effetti anche sulla necessità o meno di chiamare gli elettori alle urne.

Pertanto, sia per l’accoglimento dei quesiti referendari che per le pronunce sui ricorsi presentati, nei prossimi mesi si prospetta un ruolo di assoluto protagonismo della Corte costituzionale. Nel frattempo, situazione altrettanto movimentata si riscontra nel campo di chi, incurante dei suddetti risvolti, vorrebbe comunque procedere all’attuazione della legge per le parti in cui è già possibile.

Autonomia differenziata: le prime richieste sulle 9 materie non-lep

In altri articoli ho avuto modo di richiamare l’attenzione sui rischi che, nelle more dellapprovazione dei LEP, per 9 materie ritenute non-leppizabili dalla Commissione Cassese si sarebbe potuto procedere immediatamente alla richiesta da parte delle Regioni. Ed è ciò che sta puntualmente avvenendo. Prima sono venute le dichiarazioni del Presidente veneto Zaia all’indomani della pubblicazione della legge in Gazzetta Ufficiale; poi lo stesso ministro Calderoli ha fatto cadere il velo di mistero alzato durante tutta l’estate, confermando che quattro Regioni (Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria) hanno chiesto l’avvio dei negoziati per il trasferimento di queste materie, e che per il prossimo 3 ottobre vi sarà un primo incontro.

Ora, non che tutto fili liscio come vorrebbe farsi intendere, considerate le rumorose frenate provenienti soprattutto da quei settori della maggioranza più prudenti verso tale eventualità; ma non vi è dubbio che si stiano realizzando quelle ipotesi paventate da chi (compreso chi scrive) riteneva questa possibilità un pericolo più che concreto.

Qualora se ne fosse persa memoria, infatti, è bene ricordare che le materie su cui potenzialmente può essere chiesta l’autonomia legislativa sono 23, di cui 9 svincolate dal finanziamento preventivo dei LEP, e pertanto trasferibili dall’entrata in vigore della norma.

Parliamo di rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; professioni; protezione civile; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; organizzazione della giustizia di pace. Difficile che possa sfuggire l’impatto di una tale evenienza sul sistema produttivo, nonché sullo stesso principio di unità nazionale in ambiti tanto fondamentali per l’economia e lo sviluppo dell’intero Paese.

Le preoccupazioni delle istituzioni

Lo testimoniano le numerose preoccupazioni avanzate nei mesi scorsi da istituzioni indipendenti (Corte dei conti, Banca d’Italia, Ufficio parlamentare di bilancio), autorevoli studiosi, associazioni di categoria, sindacati, Confindustria, Conferenza Episcopale Italiana e tanti altri ancora. Ma la quasi totalità sono rimaste inascoltate, preferendo proseguire ciechi verso lo scopo politico prefissato e sordi alle voci provenienti dai più svariati e insospettabili settori. Così, mentre l’Unione Europea, pur tra mille difficoltà, cerca di perseguire l’unificazione delle legislazioni dei 27 Stati membri, proprio al fine di armonizzare e rendere più competitivo il mercato interno, da noi si procede verso la frammentazione della potestà legislativa statale, volendola trasferire ad alcune Regioni su materie fondamentali per la competitività del nostro sistema-Paese e per la tenuta dei conti pubblici; quasi non si scorgessero i rischi dati da un contesto di concorrenza oramai condizionato da quanto succede sullo scenario mondiale. Certo, ora (sic!) che si comincia a percepire l’effettiva portata di una tale eventualità, iniziano i distinguo anche in seno al Governo.

Da ultimo, il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Tajani: «Io ho inviato una lettera al ministro Calderoli, non sono in lite con lui. Ho detto le mie perplessità per quanto riguarda alcune competenze che, secondo me, non possono essere toccate perché aldilà di quelle previste, soprattutto per quello che riguarda il mio portafoglio. Io sono responsabile dell’export e credo sia sbagliato affidare l’export a ogni regione. Poi che cosa facciamo, la guerra tra i vini piemontesi e pugliesi? Quindi da questo punto di vista bisogna assolutamente fare in modo che ci sia equilibrio e non si tolgano competenze che soltanto lo Stato nazionale può gestire».

Parole importanti, e come noto al ministro la questione va ben oltre la pur importante valorizzazione delle nostre eccellenze enologiche. Avendo interesse ad approfondire, ce ne forniscono un quadro più chiaro alcuni passaggi del recente Rapporto Draghi (The future of European competitiveness), presentato lo scorso 9 settembre alla Commissione europea.

Nel copioso documento possiamo trovare affermato che «Il modello europeo combina un’economia aperta, un alto grado di concorrenza di mercato, un solido quadro giuridico e politiche attive per combattere la povertà e ridistribuire la ricchezza. Questo modello ha permesso all’UE di coniugare alti livelli di integrazione economica e sviluppo umano con bassi livelli di disuguaglianza. L’Europa ha dato vita a un Mercato unico di 440 milioni di consumatori e 23 milioni di imprese, che rappresenta circa il 17% del PIL mondiale, raggiungendo al contempo tassi di disparità di reddito che, secondo alcune stime, sono inferiori di circa 10 punti percentuali rispetto a quelli degli Stati Uniti (USA) e della Cina». Ma poi si sottolinea anche come «Tuttavia, negli ultimi due decenni la crescita economica dell’UE è stata costantemente più lenta di quella degli Stati Uniti, mentre la Cina ha recuperato rapidamente terreno. Il divario UEUSA nel livello del PIL ai prezzi del 2015 si è progressivamente ampliato, passando da poco più del 15% nel 2002 al 30% nel 2023, mentre a parità di potere d’acquisto (PPA) è emerso un divario del 12%. Il divario è aumentato in misura minore su base pro capite, poiché gli Stati Uniti hanno registrato una crescita demografica più rapida, ma resta in ogni caso significativo: in termini di PPA, è passato dal 31% nel 2002 al 34% oggi. Il principale motore di questi sviluppi divergenti è stata la produttività. Circa il 70% del divario del PIL pro capite rispetto agli Stati Uniti a PPA è legato dalla minore produttività dell’UE. La crescita più lenta della produttività è stata a sua volta associata a una crescita più lenta del reddito e a una domanda interna più debole in Europa: su base pro capite, dal 2000 il reddito reale disponibile è cresciuto quasi il doppio negli Stati Uniti rispetto all’UE».

E quali sono gli strumenti che secondo il Rapporto debbono essere attuati per invertire queste tendenze?

Parole inequivocabili: «Aumentare la competitività dell’UE è necessario per rilanciare la produttività e sostenere la crescita in questo mondo in continua evoluzione. L’obiettivo principale di un’agenda per la competitività dovrebbe essere quello di rafforzare la crescita della produttività, che rappresenta il motore più importante della crescita a lungo termine e porta all’aumento del tenore di vita nel tempo. La promozione della competitività non deve essere vista nel senso ristretto di un gioco a somma zero incentrato sulla conquista di quote di mercato globale e sull’aumento delle eccedenze commerciali. Inoltre, non dovrebbe portare a politiche di difesa dei “campioni nazionali” che possono soffocare la concorrenza e l’innovazione, o all’uso della repressione salariale per abbassare i costi relativi. La competitività oggi è meno legata al costo relativo del lavoro e più alla conoscenza e alle competenze rappresentate dalla forza lavoro».

Quindi, volendo trarre una sintesi, sembra indubbio che l’Agenda europea individui nella maggiore unificazione e cooperazione tra gli Stati membri l’unica possibilità di resistere alla crisi di competitività del vecchio continente rispetto all’economia mondiale, dominata da Stati Uniti e Cina. Esattamente il contrario di quanto si appresterebbe a fare il nostro Paese, se si andasse davvero avanti con queste improvvide velleità di autonomia regionale differenziata.


Fonte: articolo di Fabio Ascenzi