Ecco un approfondimento di Fabio Ascenzi sull’evoluzione del modello regionale all’interno della Repubblica italiana. 


È difficile comprendere la discussione in corso sull’autonomia differenziata senza avere una minima contezza di quella che è stata la travagliata storia del regionalismo italiano e di come la sua definizione, il ritardato sviluppo, le successive riforme siano sempre scaturiti da opportunismi, contingenti, di questa o quella forza politica.

Azioni e reazioni, fatti e omissioni, tutto ne è stato diretta conseguenza; dai lavori dell’Assemblea costituente sino alle vicende più attuali.

Evoluzione del modello regionale nella Repubblica: la storia del regionalismo in Italia

Se, ad esempio, agli albori dell’Italia repubblicana furono soprattutto le forze di sinistra a osteggiare la nascita del regionalismo, nel ventennio successivo furono quelle dei governi a guida democristiana a frenarne lo sviluppo. Se agli inizi degli anni ‘90 del Novecento fu la Lega Nord a imporre nell’agenda politica la questione dell’autonomia e del federalismo, furono però i governi di centrosinistra ad approvare, in epoche diverse, gran parte della relativa legislazione (prima le cosiddette leggi Bassanini del 1997, con l’introduzione del federalismo amministrativo a Costituzione invariata, poi la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 e infine le prime pre-intese con tre Regioni per l’autonomia differenziata nel 2018).

La discussione in Assemblea costituente sull’argomento non fu semplice, considerata anche la composizione delle varie forze politiche, molto eterogenee tra loro. E la ricerca di un necessario compromesso fu tra le principali cause dell’elaborazione di un modello che, negli anni, risulterà tutt’altro che chiaro o compiuto.

Dopotutto la storia del nostro Paese non presentava esperienze già sperimentate da cui attingere.

La stessa discussione politica e giuridica si era cominciata a sviluppare solo dopo l’unità d’Italia, quando alcune ipotesi sul modello da dare al nuovo Stato confluivano principalmente in modelli di stampo federalista o regionalista.

Con la nascita della Repubblica i presupposti su cui tornava all’ordine del giorno il tema erano sostanzialmente diversi e rintracciabili, prima di tutto, nella volontà condivisa di elaborare un’organizzazione statale capace di produrre, per sua stessa natura, gli anticorpi necessari a scongiurare gli eccessi autoritari e accentratori che avevano visto nell’organizzazione dello Stato fascista la sua massima espressione.

Come scrisse l’autorevole giurista Crisafulli «alla Costituente, dominante e determinante risultò la concezione liberalgarantista delle autonomie regionali: le Regioni come limite al potere (dello Stato), e pertanto garanzia di libertà contro ogni avventura autoritaria… Il ruolo primario assegnato alle regioni fu, dunque, di massima, un ruolo frenante».

Al di là delle diverse posizioni, si andava in ogni modo imponendo una rinnovata concezione di unità nazionale, non più fondata esclusivamente sullo Stato-accentratore, ma capace di coniugare questa con il riconoscimento di specifiche entità territoriali, omogenee per peculiarità geografiche, storiche e culturali. Alla fine, prevalse la cosiddetta visione storica delle Regioni e la conseguente decisione di inserirne nella Carta l’elenco e la delimitazione.

Anche se sul fondamento territoriale delle stesse ci fu già all’epoca, e c’è ancora, un ampio e diversificato dibattito, che tra l’altro mi trovo in ampia parte a condividere.

A occuparsi della questione regionalismo nella Costituente fu la Seconda Sottocommissione, all’interno della quale si manifestarono proposte differenti e contrastanti, che oscillavano da posizioni spiccatamente federaliste ad altre confederaliste, fino a quelle che osteggiavano del tutto qualsiasi organizzazione statale di aspirazione autonomista. Un quadro molto complesso, quindi, fatto di distinguo e sfumature anche all’interno degli stessi partiti, che alla fine dovettero adottare una loro strategia di compromesso, arrivando spesso a una posizione finale molto diversa da quella espressa in partenza.

Evoluzione del modello regionale nella Repubblica: i principali filoni

Volendo per semplicità sintetizzare tale lungo e travagliato dibattito, si possono individuare tre filoni principali che, con le avvertenze sopra evidenziate, aiutino a comprendere le posizioni di quelle che allora rappresentavano le principali famiglie politiche: comunista-socialista, popolare e liberale.

La componente di sinistra, così come quella liberale, partiva da una posizione antiregionalista che, al netto di alcuni limiti, vedeva nel processo unitario post-risorgimentale un percorso da proseguire attraverso il rafforzamento dello Stato centralista.

Spiccatamente regionalista era invece la posizione della componente popolare che, proseguendo nel progetto caldeggiato sin dagli anni ’20 del Novecento da don Sturzo, scorgeva nell’istituzione delle Regioni un passaggio necessario per la ricostruzione dello Stato su basi democratiche.

Come detto, queste posizioni iniziali furono poi influenzate dal dibattito in seno alla Costituente e gli approdi finali delle diverse forze politiche determinati e modificati, anche allo scopo di raggiungere un necessario compromesso sul tema specifico e sull’impianto generale della Carta. Così anche la posizione dei comunisti divenne favorevole alla creazione del nuovo Ente, di cui si accettò l’elezione su base democratica, ma con una struttura che le organizzasse come strumento di decentramento amministrativo, piuttosto che come vero e proprio, autonomo, Stato Regionale.

La collocazione liberale rimase invece fortemente ostile al regionalismo, almeno nella sua posizione maggioritaria e ufficiale, pur se al proprio interno si registrarono autorevoli posizioni favorevoli all’istituzione. Infine, la posizione convintamente regionalista dei popolari fu mediata dalla necessità di cercare un compromesso, trovando sintesi più ragionevole nella condivisione di un modello che istituisse le Regioni con il sigillo costituzionale, ma da attuare poi progressivamente, senza forzature che avrebbero potuto rimettere in discussione quel precario equilibrio raggiunto tra le forze politiche protagoniste dell’Assemblea costituente, dettato più da un necessario opportunismo che da una reale convinzione.

La lenta nascita delle Regioni

Le Regioni democraticamente elette vennero pensate dai costituenti anche come nuovo spazio dove favorire la partecipazione popolare, come piena democratizzazione dei procedimenti politici. E non a caso la convergenza verso il disegno autonomistico venne utilizzata pure per arginare posizioni, ben più velleitarie e reazionarie, rivendicate dalle istanze separatiste, che erano trasversali alle forze politiche e ancora molto attive in quel momento soprattutto nelle Isole e nel Sud del Paese.

Alla fine di questa dialettica, nella eterogeneità riassunta, la sintesi venne trovata nel modello fissato all’art. 5 della Costituzione, dove vengono sì riconosciute e promosse le autonomie locali, ma senza intaccare il principio fondamentale dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica. In altre parole, nella previsione delle Regioni si era individuato il massimo livello di decentramento e autonomia sostenibile dalla Carta, senza che ne venissero messi in discussione princìpi ed equilibri dello Stato repubblicano. La tempistica dettata nelle disposizioni transitorie era abbastanza stringente: le elezioni dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali dovevano essere indette entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione (VIII disp. Trans. Cost.); entro tre anni tutte le leggi dovevano essere adeguate alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni (IX disp. Trans. Cost.).

Ma ciò non avvenne. Le Regioni nacquero solo nel 1970 poiché, come nella fase di formazione, anche in quella costitutiva il loro destino venne determinato dalle mutevoli convenienze politiche.

Tanto da venirsi a verificare il paradosso che le forze della sinistra, relegate nel frattempo all’opposizione ed escluse dal Governo nazionale, abbandonata l’iniziale contrarietà vedevano ora in questo nuovo Ente un’opportunità per accedere al governo delle istituzioni attraverso le amministrazioni territoriali; mentre al contrario, quelle forze sempre favorevoli al regionalismo, ma oramai saldamente insediate al Governo nazionale, avvertendo il rischio che la loro nascita avrebbe potuto comportare una perdita di potere sui territori, finirono per frenare la realizzazione della previsione costituzionale, attuando quello che Calamandrei definì, con lucida vis polemica, l’«ostruzionismo di maggioranza». E questa ventennale glaciazione non ebbe solo evidenti conseguenze politiche, ma anche degli effetti che risultarono (e risultano tuttora) determinanti per comprendere la complicata storia evolutiva del regionalismo italiano.

Ne approfondirò alcuni aspetti in prossimi interventi.


Fonte: articolo di Fabio Ascenzi