Fabio Ascenzi analizza le prime schermaglie sull’ammissibilità del quesito relativo al Referendum sull’autonomia differenziata, la cui raccolta firme è stata avviata in questi giorni.


È partita in tutta Italia la campagna di raccolta firme per il Referendum abrogativo della legge sulla autonomia differenziata, messa in moto da un comitato promotore composto da partiti, associazioni, sindacati che lo scorso 5 luglio hanno depositato presso la Corte di Cassazione il quesito che si vuole sottoporre al voto: «Volete voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86, “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”?».

Prima dell’eventuale scontro referendario, gli opposti schieramenti stanno concentrando il confronto sul tema dell’ammissibilità del quesito. Materia alquanto tecnica e scivolosa, considerati i limiti molto labili e la diversa giurisprudenza della Corte costituzionale che negli anni si è venuta formando. Difficile, quindi, tracciare un quadro di certezze rispetto al dibattito in corso, che solo il giudizio della Consulta potrà dipanare.

Le obiezioni all’ammissibilità del quesito per il Referendum sull’autonomia differenziata

Le principali obiezioni che vengono avanzate dai sostenitori dell’inammissibilità sono due:

  • necessarietà della legge
  • e normativa collegata al bilancio.

Necessarietà della legge

Rispetto alla prima, si afferma che questa legge sia nient’altro che l’attuazione dell’art. 116, terzo comma della Costituzione, e quindi una norma costituzionalmente necessaria. Se così fosse, non vi sarebbe dubbio che una consolidata giurisprudenza ne ha escluso la sottoposizione a Referendum abrogativo.

Ne sono esempi i casi di leggi a contenuto costituzionalmente vincolato «il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)», sentenza n. 16/1978; oppure, quelle «la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo Costituzione», sentenza n. 35/1997.

E ancora le leggi costituzionalmente obbligatorie, cioè norme essenziali per il funzionamento dell’ordinamento democratico, come quelle riferite agli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale, che non possono essere esposti al pericolo di una paralisi nella loro attività, sentenza n. 29 del 1987.

Infine, va evidenziata la categoria delle leggi costituzionalmente necessarie, delineata dalla Corte sin dalla sentenza n. 16/1978 e più volte confermata. All’interno di tale categoria rientrano ad esempio le leggi elettorali, che non possono essere sottoposte al Referendum abrogativo qualora dalla loro soppressione si producessero lacune tali da non poter essere colmate nelle more di un’apposita normativa d’integrazione.

A riassumere mirabilmente l’orientamento della Consulta in tali ambiti è stata la recente sentenza n. 50/2022, allorché si è dovuta esprimere sull’ammissibilità del cosiddetto Referendum per l’eutanasia, con il quale si chiedeva di depenalizzare l’omicidio del consenziente. È utile riportare alcune parti delle pronunce in essa richiamate per determinarne l’inammissibilità.

All’interno di questa categoria di norme legislative che non possono essere oggetto di richieste referendarie, la sentenza n. 27/1987 ha chiarito che debbono essere enucleate «due distinte ipotesi: innanzitutto le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze nn. 26/1981 e 16/1978); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del Referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)”».

Successivamente, la sentenza n. 35/1997 ha riferito quest’ultima ipotesi anche a quelle «leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione», e la sentenza n. 49/2000 ha puntualizzato che le leggi «costituzionalmente necessarie», poiché sono «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento».

Con la sentenza n. 45/2005, infine, si è ulteriormente precisato, per un verso, che la natura di legge costituzionalmente necessaria può anche essere determinata dal fatto che una certa disciplina «coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa», e per l’altro, che «il vincolo costituzionale può anche riferirsi solo a parti della normativa oggetto del quesito referendario o anche al fatto che una disciplina legislativa comunque sussista».

Fatto questo opportuno excursus e rammentando sempre la complessità degli orientamenti, mi si consenta di avanzare qualche dubbio sul fatto che la legge sull’autonomia possa essere ricondotta, sic et simpliciter, all’interno di queste fattispecie.

Innanzitutto perché essa, come rivendicato dagli stessi promotori, è una semplice normativa di natura procedurale, dove vengono indicati il percorso e le regole che dovranno essere seguite qualora alcune Regioni vogliano ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Dunque, farla è stata una libera scelta del legislatore, in quanto non espressamente prevista, né richiesta, dal terzo comma dell’art. 116 Cost., che potrebbe essere realizzato senza il bisogno di norme attuative, come dimostra il tentativo delle pre-intese del 2018, nonché quelli di governi successivi.

Questa, in altre parole, mette in atto una tra le molteplici soluzioni che potrebbero adottarsi per l’esecuzione dell’articolato costituzionale. È appunto una legge ordinaria e in quanto tale può essere modificata da un legislatore successivo, oppure non essere del tutto rispettata nelle leggi ordinarie attuative delle intese che, essendo dello stesso rango, chiaramente non possono esserne vincolate.

Inoltre, ritengo altrettanto complicato sostenere che la sua abrogazione comporterebbe un vuoto normativo e inevitabili problemi di funzionamento delle Regioni. Dalla Riforma del Titolo V del 2001 sono passati 23 anni e non sembra che la mancata realizzazione dell’autonomia differenziata abbia causato nulla di ciò.

Per ultimo, va sempre ricordato che le richieste ai sensi dell’art. 116 Cost. terzo comma non sono una forma di attuazione della Costituzione imperativamente richiesta dalla modifica del Titolo V, ma frutto di una molteplice libera scelta: delle Regioni, che possono decidere o meno di richiederla; del Governo che può stipulare o meno l’intesa; del Parlamento, che può approvare o meno la relativa legge.

Normativa collegata al bilancio

La seconda obiezione che viene avanzata per sostenere l’inammissibilità del Referendum abrogativo è che, essendo la norma collegata alla legge n. 197 del 29 dicembre 2022 («Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025»), rientri tra quelle per cui è esplicitamente escluso dal secondo comma dell’art. 75 Cost.

Tale argomentazione appare parecchio forzata. È indubbio che non possa essere considerata propriamente una legge di bilancio, e neppure un mero richiamo formale della Finanziaria 2023 o il collegamento ad essa di alcuni suoi aspetti attuativi sembrano sufficienti a giustificare questa pretesa. Tra l’altro, per precisa decisione politica del legislatore l’intero impianto economico della norma si basa sul presupposto dell’invarianza finanziaria (sic!), quindi senza alcun impatto diretto e immediato sul bilancio dello Stato.

La terza ipotesi di inammisibilità

In conclusione, merita un cenno anche una terza ipotesi, meno propagandata: la Corte costituzionale, a fronte di una legge che contiene argomenti così diversi, potrebbe ravvisare una disomogeneità del quesito, in quanto non sia distinguibile una matrice razionalmente unitaria delle norme sottoposte alla richiesta di abrogazione, tale da ledere l’effettiva espressione della libertà di voto del cittadino-elettore.

Non è un argomento liquidabile in poche righe, ma lo accenno solo perché utile a comprendere il motivo per cui autorevoli studiosi, pur contrari all’impianto generale della legge Calderoli, stanno sostenendo la necessità di affiancare alla richiesta di Referendum per l’abrogazione totale anche alcuni quesiti di abrogazione parziale; infatti, si sostiene che, potendo questi aggredire più facilmente parti omogenee della norma, sarebbero meno esposti a un’eventuale inammissibilità.


Fonte: articolo di Fabio Ascenzi