Ecco un approfondimento sugli accordi tra pubbliche amministrazioni dell’Avv. Roberto Onorati


Gli accordi tra pubbliche amministrazioni sono diretti a consentire un più efficace svolgimento dei compiti istituzionali propri delle Amministrazioni coinvolte. Tali atti sono espressione del principio di coordinamento di attività finalizzate ad uno scopo comune a due o più soggetti pubblici, per il cui raggiungimento le funzioni e le competenze facenti capo alle singole Amministrazioni sono raccordate secondo le modalità stabilite nell’accordo.

L’ordinamento prevede espressamente, all’art.15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), che le “amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”.

La norma ha una valenza generale e, conseguentemente, un ambito di applicazione estremamente eterogeneo, sia relativamente ai possibili contenuti dell’accordo che in relazione al grado di definizione degli impegni assunti. In concreto, quindi, gli atti negoziali e/o d’intesa hanno portata, contenuti ed effetti sensibilmente differenziati e danno vita a diverse tipologie, spesso variamente denominate nella prassi, ma sul piano sostanziale riconducibili alle fattispecie dei protocolli di intesa, delle convenzioni e degli accordi di programma.

La “fluidità” di tali accordi, la cui disciplina normativa fa riferimento sia alle norme del codice civile sia alle norme che regolano l’agire della p.a., ha presentato nel tempo diverse criticità in relazione alle norme euro-unitarie in materia di appalti.

Se inizialmente l’introduzione dell’art. 15 della L. 241/90 non aveva dato vita ad interferenze con la normativa europea, riguardando la norma in esame accordi tra soggetti pubblici e privi di scopo di lucro, che non potendo partecipare ad una gara pubblica non portavano ad una lesione della disciplina euro-derivata della concorrenza, i problemi sono insorti successivamente all’estensione da parte della Corte di Giustizia UE (CGUE) della nozione di operatore economico e legittimato a partecipare alle gare, anche ai soggetti che non perseguendo un preminente scopo di lucro e non disponendo della struttura organizzativa di un’impresa, non assicuravano la loro costante presenza sul mercato, quali le università e gli istituti di ricerca nonché i raggruppamenti di università e P.A.

Le ragioni di questa interpretazione estensiva da parte della CGUE sarebbero da rintracciare nel fatto che un’interpretazione operata in senso inverso, ovvero in senso restrittivo, della nozione di operatore economico, avrebbe portato all’esclusione degli accordi stipulati dalle P.A. e tali soggetti, non caratterizzati prevalentemente da uno scopo lucrativo, a non essere considerati quali appalti pubblici e quindi ad eludere la disciplina della concorrenza nonché a violare i principi in materia di parità di trattamento e di trasparenza.

Il rischio dell’elusione della normativa sugli appalti tuttavia, non comporta la diretta incompatibilità tra accordi e diritto euro-unitario, avendo la stessa CGUE affermato che una P.A. ben possa perseguire gli obiettivi ad essa affidati dalla legge attraverso la collaborazione con altre P.A., piuttosto che introducendo la domanda all’interno del mercato esterno, subordinando però la compatibilità di tali accordi con il diritto dei contratti pubblici al rispetto di determinate condizioni così sintetizzabili: l’accordo deve necessariamente essere finalizzato alla realizzazione e al perseguimento di un pubblico interesse il quale deve essere oggettivamente comune ai soggetti pubblici partecipanti all’accordo, i quali devono realmente partecipare – anche in misura diversa – al raggiungimento dell’obiettivo secondo una reale distribuzione di compiti e responsabilità; gli unici movimenti finanziari esistenti nell’ambito di tali accordi devono essere esclusivamente legati al rimborso delle spese sostenute e non ad un corrispettivo per le prestazioni svolte; il programma di attuazione non deve contrastare o limitare il perseguimento dell’obiettivo principale delle norme comunitarie in tema di appalti pubblici, ossia la libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza agli altri Stati membri dell’Unione Europea.

Ciò è stato recepito anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, il quale ha ribadito che qualora non fosse riscontrabile l’effettivo interesse comune tra le P.A. partecipanti all’accordo, ovvero una cooperazione tra queste ultime esclusivamente deputata all’adempimento di una funzione di pubblico servizio, non sarebbe configurabile un accordo ex art. 15 della L. 241/90 e di conseguenza, non sarebbe possibile il diretto affidamento ad un’altra amministrazione, non ricorrendo quei motivi imperativi di carattere generale che giustificano l’assenza di una procedura di evidenza pubblica, che dovrà quindi essere indetta in rispetto del principio della tutela della concorrenza.

La conferma di tali principi si ritrova nella recente sentenza del Consiglio di Stato (sez. V, 07.06.2024 n. 5096), in relazione ad un accordo ex art. 15 della L.241/90 tra Regione Umbria e Automobile Club d’Italia (A.C.I.).

I giudici amministrativi hanno richiamato l’ordinanza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 30 giugno 2020, pronunciata nella causa C – 618 del 2019, che ha dichiarato illegittimo l’affidamento diretto all’ACI del servizio su cui si controverte ‘stante il preminente interesse generale alla concorrenza sotteso alle norme sull’evidenza pubblica che si traducono in vincoli alla capacità negoziale delle amministrazioni, con le quali si perseguono – da un lato – interessi di queste ultime, quali “qualità delle prestazioni” e rispetto “dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza” e – dall’altro – interessi degli operatori economici, quali “principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità’.

La Sezione del Consiglio di Stato ribadisce i principi già espressi dalla richiamata giurisprudenza nazionale e unionale, evidenziando che la convenzione impugnata tra la Regione Umbria e l’Automobile Club d’Italia in materia di tasse automobilistiche regionali, non può essere qualificata come un accordo paritetico di cooperazione tra amministrazioni pubbliche per la prestazione di servizi, che in quanto tale, ai sensi dell’art. 12, paragrafo 4, della Direttiva 2014/24/UE (recepito dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016), non sarebbe soggetto all’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica.

Viene evidenziato nella sentenza che, affinché si abbia una effettiva cooperazione tra pubbliche amministrazioni, sono necessarie la previa definizione delle reciproche esigenze, l’individuazione di soluzioni concordate e la suddivisione di compiti e di responsabilità tra le stesse, così che le attività in sinergia convergano nella realizzazione di un obiettivo comune, che nella vicenda in esame non è riscontrabile.

Infine, è opportuno ricordare il principio espresso dall’attuale codice dei contratti pubblici D.Lgs. 36/2020, che all’art. 7 definisce la cooperazione tra stazioni appaltanti o enti concedenti, volta al perseguimento di obiettivi di interesse comune, come fattispecie non rientrante nell’ambito di applicazione del codice quando concorrono tutte le seguenti condizioni:

  • a) interviene esclusivamente tra due o più stazioni appaltanti o enti concedenti, anche con competenze diverse;
  • b) garantisce la effettiva partecipazione di tutte le parti allo svolgimento di compiti funzionali all’attività di interesse comune, in un’ottica esclusivamente collaborativa e senza alcun rapporto sinallagmatico tra prestazioni;
  • c) determina una convergenza sinergica su attività di interesse comune, pur nella eventuale diversità del fine perseguito da ciascuna amministrazione, purché l’accordo non tenda a realizzare la missione istituzionale di una sola delle amministrazioni aderenti;
  • d) le stazioni appaltanti o gli enti concedenti partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20 per cento delle attività interessate dalla cooperazione.

Fonte: articolo di Roberto Onorati