Il Dott. Fabio Ascenzi fornisce alcuni interessanti chiarimenti sui falsi miti del presunto residuo fiscale all’interno del dibattito riguardante tasse e territori nella nuova autonomia differenziata.
Seguendo la discussione in atto relativamente all’iter di approvazione del Disegno di legge Calderoli, a volte emerge come in una parte della popolazione persista l’idea che, tutto considerato, l’autonomia differenziata per le Regioni non sia poi così sbagliata, perché «è giusto che i soldi vanno spesi dove si producono», portando finalmente allo scoperto anche eventuali inefficienze e sperperi dei governi locali.
Ora, detto che ovviamente ognuno è libero di avere la propria opinione, provo a illustrare perché questi presupposti, che pure contengono dei princìpi condivisibili, mi lasciano alquanto perplesso allorché si vogliano applicare al tema del regionalismo differenziato, quasi a motivarne il principale presupposto finanziario.
I falsi miti del presunto residuo fiscale nella nuova “autonomia differenziata”
Quando le Regioni più ricche sostengono tale tesi, è inutile girarci intorno, si sta avanzando nient’altro che la pretesa egoistica di trattenere sul proprio territorio finanze ben al di là di quanto realisticamente e costituzionalmente ammissibile in una Repubblica come la nostra che, pur aperta alle diverse forme di autonomia, deve rimanere in ogni caso una e indivisibile (art. 5 Cost.).
In risposta a questa mia affermazione, i sostenitori del cosiddetto residuo fiscale obietteranno che invece è solo la richiesta legittima di mantenere sui propri territori la differenza tra il totale di risorse che lo Stato centrale riceve dalle diverse aree di contribuzione (tasse pagate dai contribuenti) e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga a favore dei cittadini lì residenti (servizi).
Seguirà poi anche il consueto teorema formulato dai difensori dell’attuale progetto di regionalismo differenziato, e cioè che, poiché i cittadini del Nord pagano più tasse di quanto ricevono in servizi dallo Stato, la differenza (appunto, il residuo fiscale) verrebbe scippata ingiustamente dal bilancio centrale per ridistribuirla alle altre Regioni; tra l’altro incapaci, sarà il loro postulato finale, di spendere bene le risorse assegnate. L’abbiamo sentito ripetere fino allo sfinimento, e probabilmente è anche per questa narrazione creata ad arte che, in buona fede, molti cittadini sono portati a credere giusta la tesi che «i soldi vanno spesi dove si producono».
Ma le cose stanno veramente così? Può essere definito un rapporto diretto tra tasse pagate e ambiti territoriali di riferimento? Fornisco alcuni spunti di riflessione.
La tassazione nazionale
Va innanzitutto ricordato che in uno Stato unitario qual è l’Italia non esistono tasse pagate dal Veneto o tasse pagate dalla Campania. La tassazione nazionale è individuale e non territoriale. Le aliquote sono fissate dal Parlamento e vengono imposte in maniera identica per tutto il territorio a persone e società, proporzionalmente al reddito prodotto, a prescindere dalla zona di residenza.
Si pensi, in particolare, a società e imprese che in molti casi pagano le tasse in un luogo diverso da dove il reddito è prodotto (ad esempio, ci sono aziende petrolifere che lavorano in Sicilia ma versano le tasse a Roma) o da dove è incassato (come società di servizi, con clienti pagatori in tutta Italia, ma che versano le tasse a Milano). Ecco perché i tributi nazionali, a prescindere dal luogo dove sono riscossi, vanno a costituire le entrate per il bilancio dello Stato, che poi dovrebbe utilizzarle, nella loro massa complessiva, per garantire le spese generali e la fornitura dei servizi alla totalità dei cittadini italiani.
Basterebbe questa prima esposizione scolastica, pertanto, a comprendere perché nel mio libro aggettivo come «presunto» il concetto di residuo fiscale.
Innanzitutto, poiché non esiste nella formula che si vorrebbe rappresentare. Ma poi c’è di più. Infatti, fatta questa premessa, indagando i dati reali sulla tassazione nazionale e sulla sua articolazione si svelano scenari ancora più sorprendenti.
I tributi locali sul territorio nazionale
Si è detto come le imposte siano proporzionali al reddito. Per una disamina diligente, pertanto, non si può che partire dai dati messi a disposizione da fonti di indubbia autorevolezza e indipendenza.
L’ISTAT ha calcolato che nel 2020 il livello del Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite in termini reali nel Mezzogiorno, era inferiore del 44.3% rispetto a quello del Centro-Nord, e del 34.6% rispetto alla media nazionale. Infatti, nel Centro-Nord il PIL pro capite era di 35.000 euro mentre nel Mezzogiorno di 19.200 euro. Quindi da questi dati sembrerebbe incontestabile che nel Settentrione vengano pagati più tributi rispetto al Meridione. Ma, se invece di fermarci al totale dei versamenti, condizionato com’è dalle suddette differenze, andassimo ad analizzarli in proporzione al reddito pro capite percepito, ecco che si comincia a svelare una realtà ai più sconosciuta.
Ad esempio, nell’ultima Relazione Annuale del Sistema dei Conti Pubblici Territoriali (CPT), riferita all’annualità 2020, si legge che le tasse pagate pesano per un 47.8% nel Centro-Sud rispetto a un 46.7% del Centro-Nord.
E ancora, dati Banca d’Italia che confrontano le entrate delle amministrazioni pubbliche rispetto al PIL della singola Regione, ci restituiscono un quadro nazionale ancora più chiaro: esse pesano per il 49.5% in Lombardia, 48.3% in Puglia, 48% in Emilia-Romagna, 45.9% in Campania, 45.3% in Calabria e Sicilia, 45.1% in Veneto.
Pertanto, queste analisi dimostrano nientepopodimeno che i cittadini meridionali subiscono una pressione fiscale simile o persino maggiore rispetto a quelli settentrionali, ricevendo tra l’altro in cambio minori o peggiori servizi.
Viene così sfatato anche l’altro mito fondativo posto alla base della rivendicazione del «presunto» residuo fiscale, e cioè che pagando il Nord più tasse sia giusto che la differenza rimanga sul territorio regionale. Innanzitutto, perché come si è visto non è proprio così! E poi perché, se anche fosse, non lo consentirebbe la nostra Costituzione.
Non si possono determinare “forme di cittadinanza diverse”
Nascere o risiedere in luoghi diversi della Repubblica non può determinare forme di cittadinanza diverse; anzi, se differenze ci fossero, sarebbe proprio lo Stato a dover intervenire per eliminarle.
L’art. 3 Cost. ci ricorda che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale; l’art. 119 Cost., quinto comma, detta che è dovere dello Stato destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona.
Il problema è che questo non è avvenuto. Per decenni e decenni le risorse statali sono state assegnate in maniera sbilanciata, con un divario abissale tra quanto riconosciuto alle Regioni settentrionali rispetto a quelle meridionali, alimentando una disuguaglianza nella spesa storica statale che ha creato un solco sempre più ampio, fino a diventare incolmabile.
Ecco perché, a fronte di questi dati, prima di approcciare a qualsiasi forma di rivendicazione autonomistica di parte, continuando ad alimentare la consueta narrazione retorica del «Sud sprecone e incapace di spendere le risorse assegnate», bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di far emergere come lo Stato in tutti questi anni non solo non sia stato capace di rimuovere gli squilibri economici e sociali esistenti, ma ha persino contribuito ad ampliarli; senza mettere in atto quel principio di perequazione preteso dalla nostra Costituzione, e che oggi si vorrebbe invece, come per magia, posto addirittura in funzione propedeutica a qualsiasi riconoscimento di autonomia.
Conclusioni
Sarebbe necessario, e apparirebbe anche utile se si volesse avviare davvero un processo di regionalismo differenziato che poggi su presupposti solidaristici, unico modello pienamente aderente a quei princìpi di autonomia contenuti nella Carta repubblicana del 1948 e, pur con i suoi difetti, confermato nel Titolo quinto oggetto della riforma del 2001.
Ma sembra chiaro che non interessi farlo a chi vuole continuare a guardare all’autonomia indossando i soli occhiali del profondo Nord, perché il tema di come è stata gestita la spesa storica, ovvero della disparità perpetrata dallo stesso Stato nella distribuzione delle risorse, è l’altro pentolone che se scoperchiato e raccontato cifre alla mano, aiuta a comprendere i tanti motivi alla base dei divari socio-economici già presenti nel nostro Paese; e soprattutto perché l’attuale progetto di differenziazione competitiva non potrebbe far altro che peggiorarli.
Fonte: articolo del Dott. Fabio Ascenzi
Le regioni a statuto speciale come vengono considerate il base al ragionamento sopra esposto?
Le Regioni a Statuto Speciale sono dotate di particolare autonomia (legislativa, amministrativa e finanziaria), riconosciuta dalla Costituzione all’art. 116, primo comma. Esse beneficiano di un sistema di finanziamento che già gode di compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riscosso o maturato sui territori. Non vi è dubbio che ciò crea delle diseguaglianze e degli “attriti” con le altre Regioni. Sono note le posizioni di chi ritiene anacronistiche le motivazioni politiche e socio-economiche che indussero al riconoscimento di una siffatta specialità nella Costituzione del 1948; tanto che, all’interno del travagliato dibattito sul modello di regionalismo italiano, sempre in corso, se ne… Leggi il resto »