Disponibile il commento, a cura dell’Avvocato Maurizio Lucca, di una recente sentenza della Corte dei Conti sul danno erariale causato dalla mancata restituzione del vestiario di un militare.
La sez. giurisdizionale Toscana della Corte dei conti, con la sentenza n. 289 del 13 settembre 2023, condanna in contumacia un militare per la mancata restituzione del vestiario: un risarcimento del danno di € 566,35.
L’appropriazione indebita
L’esiguità della somma non impedisce all’Amministrazione di procedere alla richiesta erariale, in presenza del fatto che il militare non ha restituito il vestiario (anfibi, basco, cinturone, distintivo da braccio, distintivo da petto, maglietta, maglione, sopravestito vegetato, uniforme vegetata, fregio basco, pantavento) consegnato per lo svolgimento delle funzioni alla scadenza del periodo di richiamo in servizio: enunciando un principio di diritto secondo il quale i beni consegnati (come quelli in custodia) devono rimanere nel patrimonio pubblico.
In termini diversi, l’avere la disponibilità della “divisa”, o di altro “abbigliamento”, fornito a spese della PA rimane in proprietà di quest’ultima, esigendo la sua restituzione che non coincide con l’acquisizione a patrimonio personale.
La notitia damni veniva, peraltro, integrata da una sentenza di condanna penale dell’interessato per una serie di reati, tra cui quello di appropriazione indebita pluriaggravata riferita, appunto, al vestiario militare, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Stante la tenuità del danno, inferiore ai mille euro, e quindi utilmente recuperabile all’erario con le forme del rito monitorio veniva formulato l’invito alla sottoscrizione per accettazione, donde la mancata accettazione e la prosecuzione con le forme ordinarie.
La Corte si limita ad acclarare che i fatti contestati risultano comprovati dal giudicato penale devenuto irrevocabile, ex art. 651 del c.p.p., ove si sancisce l’efficacia di giudicato della sentenza penale di condanna «quanto all’accertamento del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso».
In effetti, dalla sentenza penale si configurano gli elementi illeciti della condotta: dall’elemento soggettivo e alla causalità materiale, precludendo al giudice contabile statuizioni diverse dalla fenomenologia: «l’efficacia certativa vincolante del giudicato penale investe tutti i fatti sopra rammentati, in quanto assunti a presupposto logico-giuridico della pronuncia finale, restando preclusa a questo giudice contabile ogni statuizione che venga a collidere con le risultanze e le affermazioni conclusionali della sentenza definitiva in questione» [1].
L’approdo cogente perviene alla certezza dei fatti, alla comprovata mancata restituzione del materiale fornito, al concretizzarsi del dolo (elemento soggettivo), avendo il convenuto piena contezza dell’obbligo di restituzione, specie ove si consideri che l’interessato in precedenti occasioni di addestramento ne aveva piena consapevolezza.
Dunque, la mancata restituzione nei termini indicati comporta un danno erariale pari alla deminutio quantificata nel valore dei beni non restituiti.
Osservazioni: il danno all’immagine
Astraendo, si può riflettere che una condotta assente di quel “minimo etico”, incapace di percepire il disvalore di siffatta condotta appropriativa/distrattiva del pubblico denaro che, già in astratto, ripugna alla coscienza sociale, nel concreto assume agli occhi del cittadino-contribuente una quanto mai grave valenza lesiva dell’immagine della PA, soprattutto quando viene posta in essere da un soggetto che ricopre un elevato grado di responsabilità (sottotenente medico), idonea (la condotta) a determinare una sconcertata e diffusa impressione di opacità, arbitrio e privilegio: diversamente, l’assumere tali pretese appropriative senza subirne le conseguenze dimostra tutti i limiti dell’assumere una funzione pubblica in aperta lesione non tanto dell’art. 97 Cost. (ed è già molto) quanto il “valore pubblico” in sé, quello scolpito nell’art. 54 Cost., che richiama i valori della “dignità”, l’assolvimento del ruolo istituzionale, quel dovere di adempiere la funzione con «disciplina ed onore» [2].
Un danno all’immagine della PA [3] che riflette un male antico, una schiavitù che ha origini lontane nel possesso dei beni materiali, un evidente disordine dell’ego(ismo) privato perso della luce divina, in quelle condotte devote alla parsimonia, tutta terrena, del “soffio” (dal greco ἄνεμος) inanimato del suono della lira (non strumento musicale ma vecchio sistema di valuta italiano), dove l’uomo ingordo morirà nelle strade della perdizione, travolto dal suo stesso portafoglio, seduto in qualche scrivania del potere con le dita affusolate mentre, senza respiro, conta ancora i denari (senza pentimento, scegliendo questi alle virtù, meglio descritte nel libro V, Repubblica, di PLATONE): in evidente (di)spregio della sua stessa vita, proiettata non «al servizio esclusivo della Nazione», ex art. 98 Cost., ma a quello terreno, ossia dal basso dei propri bisogni.
Note
[1] Corte dei conti, sez. giur. Toscana, sent. n. 152/2023; ex multis, sez. App. Sicilia, sent. n. 112/2019; sez. I App., sent. n. 117/1993.
[2] Cfr. Corte conti, sez. giur. Bolzano, 27 luglio 2023, n. 16, dove si descrive plasticamente le valutazioni della Corte d’appello, con riferimento ad una condotta illecita, “incapace” di non comprendere la lesività del comportamento assunto: «non era neppure ipotizzabile che il …, uomo dalla quarantennale esperienza amministrativa e con le particolari attitudini nel campo della organizzazione politica che tutti gli riconoscono, non sapesse o non capisse che non poteva pagare con i soldi pubblici la fattura del dentista e del notaio, le spese condominiali e le tasse per la ex moglie, i viaggi privati, la cerimonia di nozze del figlio, eccetera eccetera. Come non condividere l’ammonimento contenuto nel gravame del P.M., per cui a nessuno è consentito usare a proprio lìbito le casse pubbliche ‘come un bancomat’? Anche il più sprovveduto degli amministratori non può non rendersene conto».
[3] La sussistenza e la consistenza del danno all’immagine vanno valutate con l’utilizzo di diversi indicatori, inerenti alla natura del fatto, alle modalità di perpetrazione dell’evento pregiudizievole, alla eventuale reiterazione dello stesso, al clamor fori, e, infine, al ruolo rivestito dal soggetto nell’ambito della Pubblica Amministrazione, senza che abbiano rilievo alcuno le spese eventualmente effettuate per il ripristino dell’immagine lesa, Corte conti, sez. giur. Sardegna, 25 luglio 2023, n. 113.
Fonte: articolo dell'Avv. Maurizio Lucca - Segretario Generale Enti Locali e Development Manager