Il rimborso dell’Iva già traslata può diventare un illecito guadagno. Il giudice tributario italiano, per la prima volta, analizza dettagliatamente l’indebito arricchimento quale motivo fondante per il diniego di restituzione dell’imposta versata in eccesso.
È inaccoglibile la domanda di rimborso per la maggior Iva versata (e già indebitamente traslata in capo ai clienti incisi), qualora il rimborso si traduca in un indebito arricchimento per la società istante. Questo è il principio di diritto affermato dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza n. 2385 del 2018.
La vicenda processuale
Nel corso del 2015, la società, operante nel settore del trasporto aereo, presentava alla direzione regionale della Lombardia un’istanza di rimborso per l’Iva versata in eccesso, in quanto negli anni 2012 e 2013 aveva considerato corretta l’applicazione dell’aliquota ordinaria (21-22%) su componenti tariffarie che godevano invece dell’aliquota agevolata del 10%.
L’ufficio rigettava l’istanza per insufficienza della documentazione prodotta e violazione del principio di neutralità dell’Iva. La società ricorreva, eccependo la fondatezza dell’istanza e l’irrilevanza della violazione del principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto.
L’ufficio si costituiva non solo ribadendo le proprie difese, ma anche deducendo che, al fine di garantire la neutralità ed eliminare qualsiasi rischio di indebito arricchimento, l’eventuale rimborso dell’imposta nei confronti della società istante non può che essere subordinato alla condizione che la stessa dimostri l’effettiva restituzione ai clienti finali dell’Iva addebitata a titolo di rivalsa e può avvenire soltanto nei limiti dell’imposta effettivamente restituita a questi ultimi.
Il giudice di prime cure accoglieva la domanda della società, ritenendo irrilevante l’eventuale arricchimento di fatto del cedente. L’ufficio ricorreva in appello eccependo la nullità della sentenza per:
- mancato assolvimento dell’onere della prova e difetto di motivazione, anche per il fatto che la documentazione su cui la decisione si basava era inammissibile poiché tardiva
- violazione del principio di neutralità dell’Iva stante l’ingiustificato arricchimento.
La pronuncia della Commissione tributaria regionale
La sentenza della Ctr lombarda rappresenta – per quel che consta – la prima volta in cui il giudice tributario italiano analizza dettagliatamente l’indebito arricchimento quale motivo fondante per il diniego di rimborso della maggior Iva versata.
Nel nostro ordinamento, il sistema impositivo dell’Iva si configura come un sistema connotato dal principio della neutralità dell’imposta, che prevede, attraverso il meccanismo della “rivalsa” e della “detrazione”, la non incidenza dell’imposta sugli operatori economici intermedi (soggetti passivi).
In tale contesto – ricorda il giudice – l’operatore che incassa l’Iva “ha l’obbligo di riversarla allo Stato, mentre l’operatore che la corrisponde ha la possibilità di recuperarla”. Secondo il giudice di appello, il cedente/prestatore, posto che in base al principio di cartolarità dell’Iva ha l’obbligo di versare all’Erario l’Iva indicata in fattura, ha diritto a richiedere il rimborso della maggior Iva versata, purché sia rispettato il principio della neutralità dell’Iva.
Infatti, per il giudice è necessario avere a mente quanto affermato dalla Corte di giustizia Ue con la sentenza del 2 luglio 2015, emessa in relazione alla causa C-209/14, secondo cui “la base imponibile del soggetto passivo non può essere ridotta … allorché tale soggetto passivo ha effettivamente percepito la totalità dei pagamenti come contropartita della prestazione che ha fornito…”.
Per la Ctr, accertato che la società ha effettivamente incassato le somme e che negli atti del giudizio ha confessato di non poter restituire il maggior corrispettivo incassato, non si può procedere a una rideterminazione della base imponibile e, dunque, a un rimborso della maggior Iva versata, poiché se questo fosse accordato la conseguenza sarebbe la violazione del principio di neutralità dell’Iva.
La Commissione tributaria, pertanto, ha accolto l’appello dell’ufficio, ritenendo che condicio sine qua non per ottenere l’eventuale rimborso da parte del cedente/prestatore sia l’esclusione di un indebito arricchimento in capo a quest’ultimo, il che può avvenire solo e unicamente a condizione che il cedente/prestatore dimostri l’effettiva restituzione dell’imposta agli utenti finali e nei limiti in cui sia stata effettivamente restituita la somma loro dovuta.
Osservazioni
La soluzione raggiunta dal giudice è in linea con quanto affermato sia dall’amministrazione finanziaria sia dalla giurisprudenza europea. Infatti, l’Agenzia delle entrate, nella risoluzione 108/2010, analizza proprio il caso di una richiesta di rimborso da parte di un soggetto gestore nel settore della somministrazione del gas relativa all’Iva indebitamente addebitata agli utenti finali, precisando che, “al fine di garantire la neutralità del tributo e la completa eliminazione del rischio di un indebito arricchimento del soggetto gestore (il quale potrebbe ottenere il rimborso di un’IVA che non ha restituito all’utente), la restituzione, da parte dell’Erario alla società che eroga il gas metano dell’IVA in misura eccedente il 10 per cento, potrà avvenire solo a condizione che la stessa dimostri la effettiva restituzione dell’imposta agli utenti medesimi e nel limite della somma effettivamente restituita a questi ultimi” (cfr anche risoluzione 15/2013).
La giurisprudenza comunitaria (cfr Cge, sentenza 18 giugno 2009, causa C-566/07, Staatssecretaris van Financiën vs Stadeco BV) si è trovata a dover analizzare un caso simile a quello oggetto del giudizio in commento. La Corte di giustizia, dopo una dettagliata analisi della direttiva Iva e della corrispondente norma di applicazione introdotta dai Paesi Bassi, affermò il principio che:
- l’insorgenza del debito d’imposta previsto all’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva, che è dovuto unicamente per il fatto che l’IVA è esposta su detta fattura
- il principio della neutralità fiscale non osta, in linea di principio, a che uno Stato membro assoggetti la rettifica dell’imposta sul valore aggiunto dovuta in tale Stato membro unicamente in quanto erroneamente esposta nella fattura rilasciata alla condizione che il soggetto passivo consegni al destinatario delle prestazioni di servizi effettuate una fattura di rettifica nella quale non sia esposta la suddetta imposta, qualora tale soggetto passivo non abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdita di gettito fiscale
- inoltre, nel caso in cui l’amministrazione finanziaria nazionale subordini la rettifica dell’imposta sul valore aggiunto al rimborso al destinatario dei servizi prestati, da parte del soggetto che ha emesso la fattura in questione, dell’importo della tassa indebitamente pagata, il diritto comunitario non osta a che un ordinamento giuridico nazionale neghi la restituzione di tasse indebitamente percepite in presenza di condizioni tali da comportare un arricchimento senza giusta causa degli aventi diritto.
Per la Corte di giustizia, infatti, il principio della neutralità fiscale dell’Iva “costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA istituito dalla normativa comunitaria in materia” (cfr punto 39). Infine, per la giurisprudenza comunitaria, l’effettivo esercizio della rivalsa da parte del prestatore/cedente nei confronti del committente/cessionario, nell’ambito della valutazione dell’azione di rimborso nei confronti dell’Erario, impone anche l’analisi circa l’esistenza di un arricchimento senza causa.
Tale arricchimento senza causa, a seguito dell’ottenimento del rimborso, si realizza quando la persona tenuta al pagamento dell’imposta l’ha, di fatto, riversata direttamente sull’acquirente, posto che “il rimborso al soggetto passivo dell’importo del tributo che questi ha già riversato sull’acquirente equivarrebbe, per lui, a un doppio introito equivalente ad un arricchimento senza causa, mentre non sarebbe posto rimedio alle conseguenze che derivano all’acquirente dall’illegittimità del tributo” (cfrCorte di giustizia, sentenza 20 ottobre 2011, causa C-94/10, Danfoss A/S, Sauer-Danfoss ApS, punto 22).
Più in generale, sotto il profilo del diritto dell’Unione, esiste un principio in virtù del quale le autorità nazionali sono tenute a rimborsare solo l’importo dell’imposta (non dovuta) “non ripercossa” sul cessionario. Peraltro, è proprio in applicazione di tale principio che l’amministrazione finanziaria è obbligata a rimborsare l’imposta inizialmente ripercossa, ma che il cedente/prestatore ha dovuto poi rimborsare al cedente/committente (cfr Cassazione, 12666/2012).
Da ultimo, si segnala che, l’articolo 8 della legge 167/2017 (legge europea 2017), contenente le disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, ha modificato la disciplina dettata per la presentazione della domanda di restituzione dell’Iva versata e non dovuta. La disposizione in parola ha introdotto, all’interno del “decreto Iva” (Dpr 633/1972), l’articolo 30-ter, appunto rubricato “Restituzione dell’imposta non dovuta”.
Il secondo comma della norma recita: “nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta a una cessione di beni o a una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa”.
La nuova disciplina del rimborso dell’Iva, seppur volta a garantire la possibilità per il contribuente di ottenere ristoro dell’imposta versata indebitamente all’Erario anche oltre il termine biennale dal versamento, come prima previsto – in via generalizzata – nell’articolo 21 del Dlgs 546/1992, subordina espressamente il medesimo all’avvenuta restituzione al cessionario/committente dell’imposta indebitamente addebitata in fattura, sempre in un’ottica di neutralità dell’imposta e al fine di evitare un indebito arricchimento del soggetto passivo.