La sospensione dal servizio di un dipendente che reiteratamente viola l’obbligo dell’osservanza degli orari di lavoro è legittima?
Chiarimenti arrivano dala sentenza n.780/2018 del Tar Campania. Nel caso specifico il direttore del servizio risorse umane contestava numerosi ritardi in ingresso accumulati, dal momento che l’entrata in servizio si verificava sistematicamente oltre le 10:00 e l’uscita oltre le 20:00.
Si contestavano negative ripercussioni sull’organizzazione e sullo svolgimento del lavoro dell’ufficio e la mancata osservanza dei ripetuti richiami verbali e la inefficacia di multe già irrogate.
Il ricorrente assume di avere depositato memoria in data 8 luglio nella quale giustificava i ritardi sia con riferimento alla distanza della propria residenza dal luogo di lavoro, oltre 130 km, sia con riferimento a personali esigenze familiari.
Lamenta il ricorrente che la violazione dell’orario di ingresso non integrerebbe violazione dei doveri d’ufficio. Non avendo egli violato obblighi di lealtà e di diligenza del regolamento interno all’ente.
Secondo il regolamento, il ritardo sull’orario di ingresso comporta l’obbligo del recupero. Se nell’anno solare si siano accumulate ore non recuperate , si opera la proporzionale decurtazione della retribuzione. E che i ritardi sono sanzionabili al massimo con la decurtazione sullo stipendio, ma non sono violazione dei doveri di lealtà e diligenza.
In sintesi il ricorrente nega che si tratti di violazione dei doveri di ufficio sanzionabile in maniera disciplinare. Questo dal momento che come detto i ritardi dati in ingresso comporterebbero solo obbligo di recupero.
Ciò detto, la sentenza del Tar non ritiene valida la tesi del dipendente. Il giudice ha precisato, in modo inequivoco, che l’osservanza dell’orario di lavoro costituisce un adempimento agli obblighi di lealtà e di diligenza.
Chi è alle dipendenze di una pubblica amministrazione è tenuto al rispetto dell’orario. Perché la inosservanza determina una fattispecie a rilevanza disciplinare, come affermato anche dalla Suprema Corte, in quanto la flessibilità dell’orario di lavoro non giustifica i continui ritardi.