paragraph-1005411_640Emissione di fatture inesistenti: reato pagato, compenso confiscato. Errato credere che la determinazione del tornaconto dell’illecito consista solo nel debito tributario – con riferimento all’Iva evasa – dell’utilizzatore dei documenti contabili.


Il profitto derivante dal delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti è costituito dal prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture stesse, ossia dal compenso pattuito o riscosso per eseguire tale reato. Il compenso può consistere nel denaro, come la maggior parte delle volte accade, ovvero in qualsiasi altra utilità, economicamente valutabile e immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato. È quanto ribadito dalla terza sezione della Corte di cassazione con la sentenza n. 270 del 9 gennaio 2018.

 

Il procedimento penale

 

Nell’ambito di un procedimento penale per reati tributari, il giudice per le indagini preliminari disponeva il sequestro preventivo della somma corrispondente al profitto del reato nei confronti di due indagati, che avevano operato – rispettivamente – come legale rappresentante e amministratore di fatto di una società a responsabilità limitata, accusati di avere commesso – in concorso – il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Secondo il provvedimento del giudice, la somma sequestrata doveva rinvenirsi sui conti correnti o nelle disponibilità della società ovvero, qualora non fosse stato possibile rinvenire il profitto diretto, sui beni degli indagati per un importo equivalente a tale somma.

 

Avverso tale misura cautelare, uno dei due indagati presentava richiesta di riesame al tribunale, al fine di sostenere la illegittimità del sequestro disposto per un importo, a suo avviso, superiore rispetto al profitto derivante dal reato. In particolare, secondo il ricorrente, ai fini della determinazione del profitto, il giudice avrebbe dovuto distinguere tra le somme fatturate e l’Iva evasa dalla società, in quanto, solo con riferimento a quest’ultima, si sarebbe dovuto commisurare il debito tributario e, conseguentemente, il profitto del reato.

 

Il tribunale del riesame accoglieva parzialmente il ricorso, rideterminando quanto calcolato ai fini del sequestro. In particolare, il tribunale riteneva che l’emissione delle fatture per le operazioni inesistenti era stata effettuata dall’emittente, oltre che per favorire l’utilizzatore, anche per conseguire un vantaggio proprio, cioè quello di azzerare un pregresso debito Iva e, conseguentemente, riduceva l’oggetto del sequestro a tale importo. Avverso questa decisione, l’indagato proponeva ricorso per cassazione al fine di far valere la violazione di legge.

 

La sentenza

 

Con la sentenza in commento, la Cassazione, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia, ha ricordato che l’articolo 8, Dlgs 74/2000 (“Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”) prevede “un delitto a dolo specifico, nel quale l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti è fatta al fine di consentire a terzi – e non all’emittente – l’evasione dell’Iva o delle imposte sui redditi”. Tuttavia, la costante  giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in considerazione della natura di “pericolo astratto del reato”, “il fine di favorire l’evasione fiscale di terzi attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti può anche non essere esclusivo, nel senso che il reato comunque sussiste qualora sia commesso anche con lo scopo di trarre un profitto personale…” (cfr da ultimo Cassazione, 44449/2015).

 

Proprio con riferimento al profitto personale del soggetto emittente, la Cassazione ha chiarito che tale profitto non coincide né con il valore complessivo delle fatture emesse per le operazioni inesistenti, né con il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle stesse fatture, “in quanto il regime derogatorio previsto dall’art. 9 D.Lgs. n. 74 del 2000 – escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale – impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo” (cfr in tal senso Cassazione, 43952/2016, 30168/2015 e 42641/2013).

 

La Cassazione ha, dunque, concluso nel senso che il profitto del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti “è costituito dal prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture, cioè dal compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto, che può consistere tanto in un compenso in denaro, come per lo più accade, o in qualsiasi altra utilità, economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato” (sulla questione cfr anche Cassazione, 35459/2016).

 

Del resto, la Cassazione aveva già precisato che “qualora manchino elementi processuali per determinare esattamente il prezzo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (identificabile nel compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto), deve ritenersi legittimo il sequestro preventivo, anche per equivalente, di qualsiasi utilità economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato, quando non sussista una manifesta sproporzione tra il valore dei beni sequestrati e l’importo delle fatture e/o il profitto conseguito dall’utilizzatore” (cfr Cassazione, 50310/2014).

 

Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione – ritenuto che il tribunale del riesame non era incorso nel vizio di violazione di legge in quanto aveva motivato in modo articolato l’esistenza del profitto derivante dal reato – ha rigettato il ricorso dell’indagato, condannando quest’ultimo al pagamento delle spese processuali.