tari, tassa rifiutiMentre la tassa rifiuti rimane al centro della cronaca per la questione della tassazione moltiplicata su box e cantine, per le imprese il problema resta un altro. Nei loro negozi e nei loro magazzini la Tari si gonfia nel complicato gioco delle «assimilazioni», che spesso portano sotto il raggio d’azione del tributo anche le aree dove la produzione di rifiuti non c’è.


Un albergo di mille metri quadrati a Trani paga 1200 euro all’anno di Tari, mentre a Taranto il conto è da 13mila euro. Lo stesso ristorante, da 180 metri quadrati, paga 500 euro all’anno a Vernio, vicino a Prato,3.970 a Roma,4.300 a Milano e più di 9mila euro a Rignano Garganico (Foggia). E si potrebbe continuare coni negozi, i centri commerciali, laboratori artigiani e aziende di ogni tipo. Ecco i numeri impazziti della girandola Tari per le imprese, esempio sintetico della paradossale anarchia iper-regolamentata che nasce dall’incrocio troppo fitto di regole e parametri Mentre il tributo sui rifiuti rimane al centro della cronaca per la questione della tassazione moltiplicata su box e cantine – anche perché resta da risolvere l’incognita su come finanziare i rimborsi senza chiedere soldi in più agli altri contribuenti per le imprese il problema resta un altro.

 

Nei loro negozi e nei loro magazzini il tributo sui rifiuti si gonfia nel complicato gioco delle «assimilazioni», che spesso portano sotto il raggio d’azione della tassa anche le aree dove la produzione di rifiuti non c’è. Per campeggio e stabilimenti balneari spesso viene chiesto l’importo per tutto l’anno. Il Codice dell’ambiente (correva l’anno 2006) ha chiesto di ripensare il meccanismo, e dopo anni (e una diffida da parte dei giudici amministrativi) il decreto è pronto. Ma non viene emanato.

 

A frenarlo c’è il solito problema della «copertura integrale» dei costi del servizio: la Tari serve a finanziare raccolta e smaltimento, per cui ogni euro risparmiato da un contribuente si deve tradurre in un euro in più pagato dagli altri. E, a pochi mesi dalle elezioni, lasciare tutto com’è sembra la soluzione più prudente a una politica impegnata in una caccia ai voti sempre più complicata. Il principio è semplice, l’applicazione meno.

 

Commercianti, imprese e artigiani dovrebbero pagare la tassa in proporzione a quanto utilizzano il servizio, perché i rifiuti «speciali» (cioè diversi da quelli normali, che si producono anche in casa e vengono etichettati come «urbani») vengono smaltiti in proprio, affidandoli a imprese specializzate e pagate a parte. Se però i regolamenti locali «assimilano» i rifiuti speciali a quelli urbani, la Tari si gonfia. In un’area espositiva, per esempio una concessionaria di auto o un punto vendita di mobili, gli spazi sono enormi, e i rifiuti modesti.

 

Quando la Tari segue il primo criterio, per 2mila metri quadratisi può arrivare a sfiorare i 4600 euro all’anno, cioè quasi sette volte tanto rispetto ai 685 euro che arriverebbero da un conto più “chirurgico” sulle aree effettivamente produttrici di rifiuti. Ma anche lontano dai casi limite le bollette si gonfiano parecchio.

 

Un magazzino all’ingrosso, per esempio di ferramenta, produce molti rifiuti «speciali» e pochi «urbani». Se la Tari si disinteressa della questione, per 200 metri quadrati chiede anche oltre mille euro ogni anno, mentre ritagliando la tariffa sulla sola quota che davvero crea rifiuti smaltiti dal servizio pubblico si fermerebbe intorno ai 620 euro. Proprio da qui nasce il decreto fermo sui tavoli del ministero dell’Ambiente, che fissa nuovi limiti alle «assimilazioni».

 

Il provvedimento esclude la Tari dai magazzini, e si occupa di autosaloni, librerie, farmacie, supermercati, tabaccai e così via per ogni tipologia, confina le assimilazioni all’interno di mense e locali di servizio quando la superficie di vendita supera un certo limite, diverso a seconda della categoria commerciale. Dopo un’infinita battaglia tecnica, il decreto è pronto nell’ultima bozza che tale rimarrà, sembra fino alle elezioni. Ma non ci sono solo le assimilazioni a complicare la vita fiscale delle imprese.

 

Lo sa l’albergatore di Brindisi, che come molti suoi colleghi di altri Comuni si è visto presentare una tariffa pari a 4-5 volte quella prevista perle utenze domestiche e ha dovuto rivolgersi al Tar per vedersi riconoscere l’irragionevolezza della sproporzione. E lo sanno i titolari di campeggi e stabilimenti balneari che non si vedono riconosciuto il carattere stagionale della loro attività e pagano la tassa rifiuti anche per i mesi in cui le loro strutture sono deserte. La via verso la perfezione, si sa, è lunga ma per la Tari non sembra nemmeno iniziata.