Un Commercialista che raggira il proprio cliente, favorendo i propri interessi a scapito di questi, cosa rischia a livello penale? Ecco quanto emerge dalla sentenza della Corte di cassazione n. 15231 del 28 marzo 2017.
Crollata l’impalcatura difensiva fondata sul fatto che il professionista non aveva guadagnato nulla dal rapporto con la società “assistita” e che ciò escluderebbe il dolo contestato. Rischia una condanna per indebita compensazione, il commercialista che abbia dolosamente indotto in errore il contribuente circa l’esistenza di un credito d’imposta mai riconosciuto dal Fisco. È quanto emerge dalla sentenza della Corte di cassazione n. 15231 del 28 marzo 2017.
Il fatto
La Corte di appello dell’Aquila confermava la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Teramo a carico di un commercialista accusato del reato di cui agli articoli 48 cp e 10-quater, Dlgs 74/2000 (così riqualificata l’originaria contestazione ex articolo 48 cp e articolo 10-ter del citato decreto). In particolare, al commercialista si contestava di aver indotto in errore un suo cliente, una società, circa l’esistenza di un credito di imposta – mai riconosciuto – da portare in compensazione con il debito Iva per l’anno 2005. Il commercialista propone ricorso per cassazione lamentando che la sentenza avrebbe attribuito eccessivo rilievo agli esiti istruttori favorevoli all’accusa, senza valutare quelli di segno contrario. In particolare, secondo l’assunto difensivo, dal dibattimento sarebbe emerso che il professionista nulla aveva guadagnato dal rapporto professionale con la donna (peraltro, non costituitasi parte civile); circostanza questa che, a parere della difesa, escluderebbe il dolo per il contestato. La difesa, dunque, chiede l’assoluzione dell’imputato per non aver commesso il fatto.
La decisione
I giudici di legittimità, nel confermare la condanna, rigettano il ricorso, visto che la Corte d’appello si è avvalsa “di un congruo percorso argomentativo, fondato su oggettive emergenze dibattimentali e privo di qualsivoglia illogicità manifesta”. In particolare, i giudici muovono dall’irrilevanza del quesito posto in punto di elemento soggettivo, cui fa espresso riferimento la difesa, poiché al commercialista si contesta la responsabilità ex articolo 48 cp (errore determinato dall’altrui inganno). Difatti, argomenta la Corte, il contribuente aveva compensato il credito Iva in forza delle ingannevoli indicazioni ricevute dal commercialista, sostenute, peraltro, anche da false missive apparentemente inviate dalla Provincia di Teramo e con le quali si comunicava alla società la concessione – inesistente – di un contributo. Elementi questi che, a giudizio della Corte, escluderebbero una diretta responsabilità della contribuente per mancanza di colpevolezza, visto che la stessa sarebbe stata tratta in errore dal comportamento fraudolento del commercialista.
La dottrina assolutamente prevalente ravvisa in molti dei delitti previsti dal Dlgs 74/2000 il carattere di reati propri, benché le fattispecie di essi si riferiscano a “chiunque” tenga i comportamenti ivi descritti, per sottolineare come essi possano essere realizzati soltanto da soggetti provvisti della qualifica (contribuente, sostituto d’imposta, eccetera) dalla quale discendono i doveri di dichiarazione o di versamento violati.
Considerando anche l’indirizzo dominante in materia di delega di funzioni, secondo il quale il soggetto passivo non potrebbe trasferire ad altri la titolarità di obblighi pubblicistici e personalissimi come quelli di dichiarazione, parrebbe ovvio dedurne che possa essere destinatario della norma penale soltanto chi sia investito di tali doveri direttamente dalla legge e, quindi, il professionista, quand’anche assumesse contrattualmente l’incarico di adempiere quegli obblighi e realizzasse le condotte previste come reato, resterebbe un extraneus, punibile solo per concorso nel delitto commesso dall’intraneus, ovvero come autore mediato, ai sensi dell’articolo 48 cp, per avere indotto in errore il cliente, facendogli tenere il comportamento vietato.
Difatti, la Corte di cassazione, recentemente, con la sentenza 18845 del 5 maggio 2016, ha chiarito che l’affidamento a un professionista dell’incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il delitto di omessa dichiarazione, in quanto, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale e indelegabile il relativo dovere. I giudici di legittimità hanno dunque sostenuto la responsabilità del contribuente – ovvero del soggetto su cui è naturalmente imperniato il delitto – pur nell’ipotesi di delega a un consulente, il quale, ancorché professionalmente tenuto a compiere l’adempimento fiscale (secondo le dinamiche della rappresentanza negoziale), resterebbe immune dall’illecito omissivo, salvo il coinvolgimento penale in costanza di compartecipazioni di tipo concorsuale.
Giova rammentare che si è dinanzi a un delitto “proprio”, non a un reato comune; pertanto, solo un soggetto attivo qualificato può essere reputato autore dell’illecito e tale intraneus va ricercato, appunto, in chi ha su di sé le incombenze stabilite dalla normativa fiscale amministrativa. Trattasi di obblighi pubblicistici non attribuibili per delega, così da impedirsi qualifica intranea a colui il quale rimanga estraneo alla fattispecie originaria. Quanto esposto non implica necessariamente una responsabilità del delegante-contribuente, dovendosi piuttosto considerare ogni elemento del reato, compreso quello psicologico che chiama il giudicante a un’attenta analisi sull’esistenza del dolo specifico, che caratterizza i reati fiscali.
Di contro, se la mancata presentazione della dichiarazione o l’indebita compensazione, come nel caso in esame, è determinata dall’inganno compiuto dal consulente, potrebbe ravvisarsi l’esistenza di una ipotesi di punibilità del professionista quale “autore mediato”, con esclusione della sanzione in capo al contribuente.