Se con l’installazione dei pannelli fotovoltaici sul tetto si riesce ad assicurare l’omogeneità del colore, non si pregiudica il contesto ambientale dell’area?
È arrivato a questa conclusione il Consiglio di Stato, che con la sentenza 856/2017 ha ribaltato la posizione della Soprintendenza, che aveva negato l’autorizzazione ad un intervento su un edificio nelle vicinanze di un centro storico.
L’installazione dell’impianto fotovoltaico secondo le nuove modalità individuate in sede di variante progettuale, andando a incidere su di una copertura degli edifici nuova, ma di tipo tradizionale e per ciò stesso ancora più impattante, ben può integrare una incongruenza delle opere rispetto alle peculiarità del paesaggio o, per dir meglio, “deve ritenersi raggiunta la prova della logicità e coerenza del parere negativo espresso, frutto di un’attenta valutazione, nell’ambito di una complessa istruttoria, di ogni aspetto della soluzione proposta dalla ricorrente”, “in una visione di insieme” ben percepibile dal sovrastante centro storico.
Nella motivazione della sentenza si rammenta come la Soprintendenza avesse (sì) “autorizzato il posizionamento di impianti in falda, ma solo laddove il sistema tetto e il contesto lo consentivano, ovvero laddove, in ambiti di recente trasformazione, di non elevato pregio paesaggistico, il sistema della copertura fosse molto semplice e, dunque, possibile sostituire un’intera falda, evitando la commistione materica “, a differenza del caso in esame nel quale, come si è detto, l’inserimento di “solo due falde fotovoltaiche in un sistema vario di falde con coppi antichizzati” non risolve le problematiche evidenziate, dato che viene riproposta l’alterazione percettiva delle coperture di carattere tradizionale, e si determina una “confusa commistione tra diversi materiali in falda di tetto (coppi e pannelli)” in un contesto in cui la copertura integrale coi pannelli riguarda solo due falde su più di dieci.
Prima però di soffermarsi sulle ragioni per le quali la sentenza di primo grado – pur argomentata in maniera attenta- non è condivisibile in talune, decisive, delle sue argomentazioni e nelle sue conclusioni, è il caso di “sgomberare il terreno di contesa” dal primo motivo di appello, imperniato –senza, peraltro, sviluppi argomentativi specifici- sul superamento del termine (di 45 giorni) previsto dall’art. 146 del t. u. n. 42 del 2004, nella formulazione vigente nel 2012, termine entro il quale la Soprintendenza era tenuta a esprimere il proprio parere. Al riguardo, il Tar si è limitato a rilevare in modo assai sintetico che il termine di cui all’art. 146 del t. u. n. 42 del 2004 non è da considerarsi perentorio e che quindi il suo infruttuoso decorso non determina la consumazione del potere di provvedere in capo all’organo statale.