Chiudere tutte le centrali del Paese entro il 2025 è possibile e conveniente, difendendo i 2.500 lavoratori del settore: lo Stato guadagnerebbe 6,3 miliardi di euro.
L’obiettivo dell’Accordo sul clima di Parigi è quello limitare l’avanzata dei cambiamenti climatici al di sotto dei +2 °C, puntando a rimanere entro i 1,5 °C rispetto all’epoca pre-industriale. Domani questo accordo diverrà legalmente vincolante: guardando al lato pratico della questione, l’impiego del carbone nella generazione termoelettrica «non è compatibile» con gli obiettivi che anche l’Ue e l’Italia hanno firmato e ratificato. Lo stesso premier Matteo Renzi ha dichiarato che «oggi il nostro nemico è il carbone». Perché allora nel nostro Paese l’impiego della più inquinante e climalterante delle fonti fossili sta crescendo?
Secondo i dati elaborati alle porte della Cop22 di Marrakech (che aprirà i battenti il prossimo 7 novembre) dal Wwf Italia nello studio “Politiche e misure per accelerare la transazione energetica e l’uscita dall’uso del carbone nel settore elettrico” risulta che «negli ultimi anni in Italia il carbone ha rafforzato la propria posizione nel settore termoelettrico passando da un contributo del 12% della produzione nel periodo 1990-2000, al 17% dal 2000 al 2010 al 24% nel periodo 2006-2014, con un picco del 28% nel 2014». Perché? «I fondamentali – si legge nello studio – hanno continuato a spingere in direzione opposta alle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici con un incremento delle emissioni da generazione a carbone di quasi il 40% negli ultimi anni, rispetto alle emissioni del 1990». Una tendenza che si è affermata in tutta l’Ue: con il crollo delle commodity energetiche il carbone è divenuto più economico che mai, senza che gli effetti «dell’introduzione del meccanismo di diritti di emissione (Eua) introdotto dalla direttiva sull’Emission trading scheme (Ets)» siano riusciti a frenarne l’ascesa. Così, nonostante per ogni kWh di energia generata a carbone l’emissione di CO2 risulati pari a 870 grammi contro i 370 grammi del gas naturale e le “zero emissioni” delle fonti rinnovabili, l’inquinantissimo combustibile fossile conquista terreno. «Il carbone in sostanza – commenta il Wwf – si avvantaggia dei risultati ambientali conseguiti negli altri settori per continuare a produrre come e più di prima. Anziché chi inquina paga possiamo dire che chi inquina ha fatto pagare agli altri».
Complessivamente però in Italia il carbone contribuisce ancora «ad una percentuale modesta del consumo interno lordo di energia elettrica, il 13%», a fronte del 25% circa della produzione elettrica europea, del 45% in Germania e dell’80% in Polonia. Fermarlo in tempi brevi è possibile, oltre che necessario.
Come? In tre mosse, complementari tra loro, programmando in Italia l’uscita dalla generazione di energia a carbone entro il 2025 tramite «1) L’introduzione di strumenti fiscali per garantire il principio del “chi inquina paga” almeno sino a quando la direttiva Ets non tornerà a dare segnali di prezzo significativi sui mercati 2) La programmazione della chiusura delle centrali, il phase out, con le diverse parti sociali in maniera tale da porre tempi certi per l’uscita dalla generazione a carbone, comunque inevitabile, e garantire un’equa transizione anche per i lavoratori impiegati nelle centrali 3) L’introduzione di nuove regole per la finanza, coerentemente all’accordo di Parigi».
Scendendo nel dettaglio, lo schema d’intervento si basa si meccanismi di mercato imperniati attorno all’introduzione di una carbon tax: l’opzione presa in esame prevede infatti l’introduzione, a partire dal 2017 di un Carbon floor price (Cfp) sul modello inglese, che determina un prezzo minimo del carbonio anche nel caso in cui sul mercato europeo Ets il prezzo sia inferiore: in particolare «è stato simulato l’impatto dell’introduzione del Cfp a partire dal 2017 con un valore di 20€/t linearmente crescente a 30€t/nel 2022».
Sarebbero 2.500 i posti di lavoro persi nelle centrali a carbone italiane, e il costo annuale di protezione per i lavoratori «si aggirerebbe sui 20M€», ma tale meccanismo permetterebbe di garantire «entrate nelle casse dello Stato nell’ordine di 6,3 miliardi di euro tra il 2017 ed il 2026». Un bottino da poter reinvestire per far ripartire la crescita degli investimenti nei settori delle fonti rinnovabili (crollati negli ultimi anni) e al contempo «costruire strumenti per un’equa transizione nei settori maggiormente esposti alla riconversione dei sistemi energetici, così salvaguardando anche i posti di lavoro». Il guadagno conseguente sarebbe dunque economico, ambientale, sanitario. Il tempo stringe, dopo le innumerevoli dichiarazioni l’ora dei fatti è già scoccata.