La Corte di cassazione, con la sentenza 15596/2016, ribadendo quanto già sostenuto in precedenti pronunce, ha affermato che l’attività di meretricio, se svolta in forma abituale, è assimilabile al lavoro autonomo, mentre se viene svolta, sempre autonomamente, in forma occasionale, rientra nella categoria dei redditi diversi, con la conseguenza che, in entrambi i casi, l’attività liberamente esercitata dà luogo a redditi tassabili.
La vicenda processuale
La Guardia di finanza eseguiva una verifica fiscale nei confronti di una donna che, pur non avendo mai presentato dichiarazione dei redditi, risultava intestataria di diverse automobili (anche di lusso), acquirente di un appartamento, titolare di vari contratti di locazione immobiliare, nonché intestataria di dieci conti correnti attivi e di gestioni patrimoniali. Sulla base degli accertamenti effettuati, l’Agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento nei confronti della contribuente, mediante il quale recuperava a tassazione ai fini Irpef il reddito imponibile non dichiarato.
La contribuente impugnava l’avviso dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale, fondando il ricorso sulla asserita non tassabilità dei redditi accertati stante, da un lato, la mancanza di una norma tributaria che espressamente preveda l’imposizione dei proventi derivanti dallo svolgimento dell’attività di prostituzione e, dall’altro, alla luce della considerazione che gli stessi non sono qualificabili come proventi illeciti. Il giudice tributario di primo grado accoglieva parzialmente il ricorso, riconoscendo rilevanza reddituale ai proventi dell’attività di meretricio, ma ritenendo che essi fossero soltanto quelli risultanti dai versamenti sui conti correnti effettuati in contanti, escludendo quelli effettuati mediante assegni.
L’Agenzia delle Entrate proponeva appello, che veniva accolto dalla Commissione tributaria regionale. Quest’ultima, infatti, ribadiva che i proventi conseguenti all’esercizio dell’attività di prostituzione rientrano nella categoria residuale dei redditi diversi, in quanto frutto di una prestazione volontaria di un servizio dietro corrispettivo (rapporto sinallagmatico).
Contro la sentenza di appello la contribuente proponeva ricorso per cassazione.
La decisione della Corte di cassazione
I giudici di legittimità, rigettando il ricorso, hanno confermato la tesi della tassabilità dei proventi derivanti dall’attività di meretricio. Questo il percorso argomentativo seguito dalla suprema Corte:
- dalla lettura del Testo unico delle imposte sui redditi non si ricava una definizione unitaria di reddito, ma si evince la previsione di diverse categorie reddituali, il cui denominatore comune è rappresentato dalla provenienza “da una fonte produttiva”
- all’attività di prostituzione, di per sé priva di profili di illiceità (diversamente dall’attività di favoreggiamento o sfruttamento della stessa), deve essere riconosciuta natura reddituale
- l’ordinamento civile riconosce tutela parziale all’attività di meretricio, includendo la prestazione sessuale dietro corrispettivo nella categoria dell’obbligazione naturale, “la quale, se non consente il diritto di azione, attribuisce alla persona che ha svolto l’attività di meretricio il diritto di ritenere legittimamente le somme ricevute in pagamento della prestazione”
- la Corte di giustizia delle Comunità europee ha aderito alla tesi della tassabilità dei proventi dell’attività di prostituzione (sentenza del 20 novembre 2001, causa C-268/99, in cui il giudice comunitario ha affermato che “la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita, la quale rientra nella nozione di attività economiche (…) e spetta al giudice nazionale accertare, caso per caso, se sussistono le condizioni per ritenere che la prostituzione sia svolta come lavoro autonomo”, vale a dire al di fuori di fenomeni, penalmente rilevanti, di induzione, costrizione o sfruttamento)
- nel caso di specie, la contribuente, per sua esplicita dichiarazione, esercitava liberamente e autonomamente l’attività di meretricio, dalla quale aveva ricavato proventi non dichiarati.
Sulla base di tali considerazioni, la suprema Corte, riprendendo le fila di un suo precedente orientamento (si vedano, in particolare, le sentenze 20528/2010 e 10578/2011), ha quindi ribadito l’imponibilità di questa tipologia di proventi, in quanto l’attività di prostituzione è “assimilabile al lavoro autonomo, se svolta in forma abituale, ovvero rientrante nella categoria dei redditi diversi se svolta, sempre autonomamente, ma in forma occasionale”.
Pertanto, secondo i giudici di legittimità, l’esercizio, libero e consapevole, dell’attività di prostituzione, abituale o occasionale che sia, genera comunque un reddito imponibile ai fini Irpef.
Naturalmente, del tutto diverso è il caso dei fenomeni, penalmente rilevanti, di induzione, costrizione o sfruttamento della prostituzione altrui, in cui i proventi dell’attività di meretricio, prima ancora che assoggettabili a imposta, sono, a norma del codice penale, interamente confiscabili quali provento di reato.